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Ligabue: «Vengo da una famiglia comunista. Il comunismo era un parametro per capire chi frequentare»

A Il Fatto: «Del mio lavoro mi piace la sensazione di aver tenuto compagnia, che qualcuno si sia sentito meno solo»

Ligabue: «Vengo da una famiglia comunista. Il comunismo era un parametro per capire chi frequentare»

Su Il Fatto Quotidiano una lunga intervista a Luciano Liguabue. Su RaiPlay è disponibile la serie a lui dedicata, “È andata così”, diretta da Duccio Forzano, in cui racconta la sua storia, a partire dalle origini familiari.

«Vengo da una famiglia di comunisti, in cui non si festeggiava il Natale, quindi niente albero e niente regali; i regali arrivavano alla Befana. (…) In casa mia non si parlava spesso di comunismo, ma era un parametro per capire chi frequentare, chi era buono o cattivo, con nonno che era stato una figura importante tra i partigiani di Correggio».

Gli esordi, con il primo album rifiutato da tutte le etichette, finché non lo propose alla Polygram, l’ultima possibilità.

«Arriviamo e il direttore generale era scocciatissimo, non aveva voglia di incontrarci. Mette su la cassetta. Ascolta Balliamo sul mondo. Dopo il primo ritornello spegne e sentenzia: “C’è troppo Guccini”. Lì ho capito che non ce l’avrei mai fatta; in realtà nella vita serve culo. Quella cassettina poi finì nelle mani di alcuni ragazzi della Polygram, a loro piaceva, lo dissero in giro fino a quando la Warner cambiò la dirigenza e mi chiamarono».

Guccini, però, lo ha influenzato davvero tanto.

«L’avvelenata è uscita quando avevo 15 anni, età per me cruciale perché coincideva con la liberalizzazione delle radio e poco dopo ho iniziato con l’Fm. I cantautori erano al loro massimo. Mio padre mi aveva regalato una chitarra, cercavo di suonare proprio L’avvelenata e a forza di studiarla ho messo a fuoco il testo, forse il più punk della musica italiana. Quel testo mi creò qualche confusione. Non capivo. Mi domandavo perché Francesco Guccini che, come si diceva nel mio paese, cantava invece di lavorare, portava a casa tutti gli annessi e connessi, quindi ragazze, un po’ di soldi, l’approvazione e le riverenze, fosse così incazzato con alcuni aspetti di questo mestiere; e invece, tanti anni dopo, in una notte un po’alcolica, mi è uscito uno sfogo simile al suo e ho pensato: “Adesso l’ho capita”. E ho scritto Caro il mio Francesco. Tempo dopo con lui e a quattro mani è nata Ho ancora la forza».

Liguabue racconta di quando ha pensato di smettere di fare musica.

«Nel 1999 avevo deciso l’addio tanto da comunicarlo ai miei musicisti; poi hanno vinto due aspetti: la domanda se potessi rinunciare ai concerti; secondo: raccontare che il successo non è solo quello che appare. E Elvis lo aveva già ampiamente dimostrato morendo da Re sulla tazza del cesso: lui aveva troppo, troppo successo, troppa noia, troppi fantasmi; scrivere un album su questi problemi ha esorcizzato il problema stesso».

L’album a cui si riferisce è Miss Mondo. I musicisti, quando gli diede la notizia,

«Rimasero sotto choc; uno di loro nella serie racconta: “Mi dispiace perché non avevamo capito il suo malessere”».

Del suo lavoro cosa ama maggiormente?

«La sensazione di aver tenuto compagnia, che qualcuno si sia sentito meno solo, nel dolore quanto nel ballo».

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