Lo dicono i numeri. Persino Ibrahimovic s’è tirato indietro. Non è da questi particolari che si giudica un giocatore, ma una stagione vincente sì
Se c’è un momento buono per trattare Insigne come se fosse un giocatore del Napoli – importante, persino capitano – e non come una semidivinità è quando sei primo in classifica a punteggio pieno. Uccellini che cinguettano, unicorni che galoppano sugli arcobaleni starnutendo coriandoli. Il buonumore. Ti metti a tavolino ed affronti il problema: Insigne ha sbagliato quattro degli ultimi sei rigori che ha tirato. Visto il contesto ambientale, saturo di euforia, è una bazzecola, un dettaglio di quelli che i perfezionisti non tralasciano.
I rigori sono fatti della stessa sostanza del gol. Sono l’uno il prequel dell’altro. Sono ami, esche. Non si sprecano. C’è tutto un ambientalismo del penalty cui ormai nessuno si sottrae, ne va spesso della sostenibilità del risultato, della classifica. E quello del rigorista, in un calcio iperspecializzato, è un ruolo a sé. Come il kicker nel football americano.
Servono due abilità, su tutte, per dirsi rigoristi: il sangue freddo, e le statistiche di realizzazione a supporto. Li puoi tirare come vuoi: cannonate alla cieca, con tre o quattro dita, col passetto, la finta, il demi plié, con la rincorsa da 30 metri o da fermo, in apnea, bluffando con lo sguardo, persino puoi alambiccarti col “cucchiaio”. Ma devi segnare. Punto. Insigne, molto serenamente, non lo fa. È emotivo, fa la tara al rigore che tirerà, soppesa stimoli e momenti. I tanti errori contro la Juventus sono indicativi. E ultimamente le sue percentuali sono avvilenti.
Insigne attualmente non è un rigorista. È tante cose, ma un rigorista no.
È arrivato il momento che qualcuno glielo dica, affrontando il demone della sua suscettibilità. Non è solo una miope evidenza dettata dalla cronaca – e già basterebbe, la gestione del presente è fondamentale per allungarsi la vita in un campionato estenuante – ma si tratta di ribaltare uno sconcio filosofico, provinciale e masochista: i rigori non sono una medaglia al valore da appendere al collo del più fico di tutti. Il rigorista non è una posizione di rendita. Il blasone eventuale di chi se ne intesta oneri o onori è un argomento laterale, subalterno: i rigori li tira chi li segna di più e più spesso. E stop. Veretout, che pure ha sbagliato contro la Juventus, veniva da 13 rigori segnati su 13. L’errore ci sta, se non è statisticamente rilevante.
Lo “specialista” invece è diventato un brand da “spingere” sul mercato, come il numero di maglia personalizzato. A volta una pretesa egomaniaca che ha prodotto distorsioni: Ronaldo sono anni che monopolizza le punizioni, scippandole a chi avrebbe ben altre percentuali realizzative. Si piazza lì, mani sui fianchi, gambe larghe, sbuffa, guarda torvo la porta avversaria come se stesse per giustiziarla, i flash brillano nel cielo, e poi spara sulla barriera. Ma Ronaldo è un caso di studio, un unicum. E se lo potrebbe, al limite, financo permettere. Ognuno si il sceglie il metro di riferimento, che alla fine lo misura.
Il calcio è zeppo di grandissimi campioni che si astengono. Di bomber obiettori di coscienza, che lasciano gli 11 metri a compagni meno appariscenti ma dannatamente efficaci. Persino Ibrahimovic, il guru del narcisismo, dopo un paio di dolorosissimi errori al Milan s’è arreso alla superiorità settoriale di Kessie. E molti allenatori hanno preso a riscrivere le liste di priorità, persino mescolando i tiratori di volta in volta. All’Atalanta la gerarchia mette Muriel in cima, in realtà li tirano un po’ tutti: Zapata, Ilicic, Malinovskyi. E’ solo un esempio, ma vale il concetto quasi matematico: dal dischetto va chi ha più possibilità di segnare, non chi se lo merita o crede di.
L’intoccabilità di Insigne a Napoli, anche su un aspetto solo del suo gioco, è paradossale: è il più criticato ma fa valere un passaporto diplomatico. Anche negli anni del Mertens implacabile Insigne ha usucapito le punizioni dalla sinistra e i rigori. Nonostante Mertens da quelle stesse mattonelle avesse i suoi stessi numeri: in azzurro Mertens ne ha sbagliati il 33,3%, Insigne il 32, 25%. Male, entrambi. Mertens non li ha più tirati. Impermeabile all’evidenza, Insigne s’è imposto per auto-acclamazione.
Ma in una squadra governata col piglio saggio e attento di Spalletti, e la morbidezza, l’agio della buona sorte attuale, possibile che la sola idea di togliere i rigori a Insigne debba tradursi in lesa maestà? Si può argomentare che Insigne non è un buon rigorista senza farsi processare per guastafestismo colposo? Non sarà da questi particolari che si giudica un giocatore, va bene, ma è anche su questi particolari che si costruisce una stagione vincente.
Spalletti fa bene a coccolarlo pubblicamente. Ma se il prossimo rigore lo batte Insigne e lo sbaglia, quello dopo lo batte Lorenzo e lo sbaglia, e quello successivo il capitano e lo sbaglia pure lui, quanti punti il Napoli avrà lasciato sulla strada della canonizzazione del suo presunto specialista? Insigne punta alla beatificazione da martire?
Prendersi una pausa di riflessione – anche a tempo determinato – sarebbe una scelta matura, generosa. Convincerlo a fare un passo indietro, se proprio si vuole usare cautela, un atto dovuto. Magari lo si induce in tentazione liberandolo dal male.
Il rigorista non è una investitura divina, né una dittatura. Morto (sportivamente) uno, se ne fa un altro. Funziona coi Papi, Insigne se ne farà una ragione.