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Rosetta, Marta e Losanna, le giovani calciatrici che sfidarono il fascismo

La loro storia è raccontata nel libro “Giovinette”. Nel 1933 fondarono il Gruppo Femminile di Calcio. Il regime, però, voleva «buone madri, non calciatrici» e le sciolse. Giocarono una sola partita

Rosetta, Marta e Losanna, le giovani calciatrici che sfidarono il fascismo

«Amo moltissimo il giuoco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia. Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai».

E’ il 1933. A parlare è Rosetta Boccalini, in un’intervista alla rivista Calcio Illustrato. Rosetta, milanese, aveva fondato, con le compagne, una squadra di calcio, il Gfc, Gruppo Femminile di Calcio. La loro storia è raccontata da uno speciale del settimanale Sette, del Corriere della Sera.

Rosetta e le altre non poterono giocare a lungo, perché il fascismo glielo impedì. La loro storia, però, è diventata un romanzo. Si chiama “Giovinette”, lo ha scritto Federica Seneghini, giornalista del Corriere, basandosi su documenti dell’epoca, sulle testimonianze dell’ultima superstite e sui ricordi dei parenti delle protagoniste.

Rosetta studiava da maestra. Insieme alla sorella Marta, sarta, e all’amica Losanna Strigaro, commessa, erano riuscite a creare la loro squadra ottenendo il consenso del presidente del Coni e della Figc, Leandro Arpinati. Arpinati era un fascista, ma anche un grande amante dello sport. Aprì all’esperimento anche se, come scrisse sulla Gazzetta dello Sport, «la sua diffusione non è opportuna». L’esperimento era ammesso solo per le ragazze tra i 15 e i 20 anni. Arpinati accettò che la società milanese giocasse a calcio, ma con una condizione:

«Ogni attività deve però svolgersi in privato, cioè su campi cintati e senza l’ammissione di pubblico».

Le ragazze dovettero anche chiedere un certificato medico a Nicola Pende, direttore dell’Istituto di biotipologia individuale e ortogenesi di Genova, punto di riferimento scientifico del fascismo. Bisognava assicurarsi che il calcio non danneggiasse il corpo delle donne, in particolare, che non compromettesse la fertilità delle giocatrici. Tanto che, spiega la Seneghini nel libro, il Gran Consiglio del Fascismo stabilì che in porta giocassero solo maschi.

«Bisognava evitare che le donne rischiassero di prendere pallonate sugli organi riproduttivi. E in ogni caso una volta diventate madri, lo sport era da escludere».

I giornali, all’epoca, non presero bene la notizia di una squadra di calcio femminile. Si riteneva che l’Italia fascista avesse bisogno di madri, non di “virago calciatrici”.

Le ragazze riuscirono a giocare una sola partita, l’11 giugno del 1933. E c’era anche un nutrito pubblico, perché erano diventate famose. Ma fu l’unica occasione, appunto. Perché, a capo del Coni, nel frattempo, era arrivato il gerarca Achille Starace, che non era un uomo di sport, come Arpinati e fece sciogliere la squadra.

Rosetta, Marta e Losanna furono delle pioniere. Per questo la Seneghini lancia un appello:

«Mi piacerebbe che Milano le ricordasse intitolando loro una strada o un campo sportivo».

 

 

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