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Non si diventa Guardiola per caso. L’attenzione maniacale ai dettagli, anche a De Gregori

La citazione di “La storia siamo noi” dopo il Psg è l’ultimo pezzo d’arte di uno stratega della comunicazione. Di un uomo che tende sempre alla perfezione

Non si diventa Guardiola per caso. L’attenzione maniacale ai dettagli, anche a De Gregori

C’è un solo modo per citare il titolo più citato della musica italiana senza passare per un tardo-adolescente che non riesce a buttare la Smemoranda del liceo: essere Pep Guardiola. Solo se hai un ego che fa provincia, il curriculum per sostenerlo, la preparazione maniacale del media manager, e l’autoironia posticcia di uno che si sfotte ma che non si fa sfottere, puoi andare in tv e dire “La storia siamo noi” ottenendo in cambio un plebiscito di cuoricini e retweet. Il City ha appena vinto a Parigi, e nella spiegazione a Sky Sport del segreto del suo successo Guardiola attacca così:

«Noi siamo noi quando giochiamo come sappiamo, quando siamo noi come squadra. Adesso sembro Francesco De Gregori che dice ‘La storia siamo noi’».

Apriti social. “Genio”, “un grande”, “gioco partita incontro” e via così. Lui sogghigna, sa che l’effetto è scontato. Ha studiato la grammatica della comunicazione, e ha un talento naturale per brillare di enfasi riflessa. Non improvvisa, e se lo fa è perché ormai conosce tempi e modi delle pubbliche relazioni, allenati in anni e anni come una punizione o un rigore. Guardiola non è un guru a caso e non ha lo stipendio da guru per raccomandazione celeste. Ha un’ossessione per il dettaglio. Che sia tattica o prossemica lui maneggia tutto come un vincente. E vince.

Il vero talento di chi ha talento, spesso, è farlo passare per leggerezza. Trasformare la fatica e il puntiglio in naturalezza. A meno di raccontarci l’idiozia che basti il talento: Maradona, il più fustigato dalla balla del “genio e sregolatezza”, si allenava, provava e riprovava. Persino la Mano de Dios è un pezzo d’arte testato in settimana.

Guardiola è un apostolo della strategia dell’attenzione. Come Mourinho, che ai tempi dell’Inter recitava accigliato in sala stampa come Carmelo Bene a teatro. Sapeva tutto, conosceva ogni avversario nelle sue pieghe tecniche e nei suoi punti deboli, accostando la polemica al molo che gli pareva opportuno. Ne conseguivano tonnellate di titoli e risposte leggendarie. A mostri del genere nessuno s’azzarderebbe mai a imporre un silenzio stampa: sarebbe come vietare a Messi il dribbling.

Guardiola adotta uno stile low profile, a Milano direbbero che fa lo “schiscio”. Anche nell’analisi del 2-1 al PSG riesce a posizionare il City come una specie di underdog:

«Se giochi aperto contro il Psg e questi attaccanti non c’è niente da fare, sono diecimila volte più forti di noi. Conosco i miei giocatori, se dobbiamo giocare in contropiede possiamo farlo. Se giochiamo aperti contro Neymar e Mbappé non c’è niente da fare, ti ammazzano»

La finta professione d’umiltà è invece un modo per cantarsela e suonarsela, La storia siamo noi. Un’esca per raccogliere gli applausi per aver portato a casa il risultato lavorando sulla partita, sulla sua gestione. In fondo ad ogni discorso di Guardiola, se guardi bene, c’è Guardiola.

E non potrebbe essere altrimenti. Fa parte della stessa fatica: curare ogni minuzia, non pensare ad altro, mai. Che è una patologia endemica tra i grandi dello sport, con rarissime eccezioni che tra l’altro vengono rinfacciate con un pizzico di malsana invidia. Come fece Arrigo Sacchi, in un incontro al vertice nel 2018 con Guardiola e Ancelotti. L’allora tecnico del Napoli sedeva come un rinnegato tra i matti consapevoli:

«Carlo è molto bravo ed è molto intelligente ma a differenza di altri, anche mia e di Pep non ha l’ossessione di andare oltre i propri limiti. Come diceva Salvador Dalì non bisogna avere paura della perfezione tanto è impossibile da raggiungere».

Guardiola si fa piccolo per dirsi grande da praticamente sempre. C’è un pezzo molto carino de L’Ultimo Uomo che riepiloga in sequenza tutti gli elogi che Guardiola ha distribuito nel corso degli anni, a pioggia. E’ di un anno e mezzo fa, quindi nemmeno aggiornatissimo, ma rende l’idea. Il miglior giocatore di sempre, per lui, è Baggio… Messi, no… Foden, anzi tutti i suoi giocatori del City, ma anche Carrick, Pyatov, Calvert-Lewin eccetera. E così gli avversari, di volta in volta. E gli arbitri, persino gli arbitri. Per non parlare degli altri allenatori. Da Kimmich a Klopp, da Mourinho ad Ancelotti, da Zeman a Gallardo, a Bielsa, passando per Gasperini e Sarri. In un’unica intervista è riuscito a elogiare a mitraglietta Sarri, Allegri, Montella, a definire Conte un “maestro”, e poi Mazzone “un maestro” e Sacchi “un maestro”.

Guardiola è sempre un allievo. Il migliore, al primo banco. Ma quello fico, che ti fa copiare e suona la chitarra, è capitano della squadra di basket, Gran Lup Man degli Scout e parla tre lingue, il russo scritto non all’altezza del suo mandarino.

Per cui, mentre si proietta in finale di Champions riuscendo a imporre la sua ossessione di giocare senza punte (“il limite”, ecco di cosa parlava Sacchi) contro una formazione di fenomeni in provetta, cita De Gregori e fa l’occhiolino all’intervista italiana (“mi manca la pasta”).  Il risultato, fuori dal campo, è lo stesso del campo: trionfo. “Genio”, Guardiola.

E’ da questi particolari che si giudica un allenatore.

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