È piaciuto in tutta Italia il film tv trasmesso dalla Rai sul visionario artista napoletano interpretato da Eduardo Scarpetta
Non si spegne l’eco della prima su Raiuno di “Carosello Carosone” il film per la tv con la regia di Lucio Pellegrini, tratto da un soggetto di Federico Vacalebre “Carosonissimo” – con la sceneggiatura di Giordano Meacci e di Francesca Serafini (con Caligari scrissero la sceneggiatura di “Non essere cattivo”). Perché questo biopic che racconta la vita artistica del maestro napoletano – inizia con un diciassettenne Carosone che si Diploma al Conservatorio (1937) e termina nel 1959 con il suo primo ritiro dalle scene – è piaciuto in tutta Italia. Merito anche di Matteo Rovere e Sydney Sibilia (con Marta Aceto) che lo hanno prodotto e che gode dei bellissimi costumi di Valentina Taviani e degli arrangiamenti musicali di Stefano Bollani. Ma soprattutto del giovane Eduardo Scarpetta (Renato Carosone) con quella sua faccia che è un asse ereditario genetico, che ha interpretato l’autore de ‘O sarracino/Caravan petrol (1958).
La parabola vitale di Carosone si snoda dagli inizi precari in Eritrea – dove ad Asmara conosce Italia Levidi (la fresca Ludovica Martino) – fino ai successi a Napoli, Milano con l’olandese Peter Van Wood (Nicolò Pasetti) alla chitarra e Gegè Di Giacomo (Vincenzo Nemolato) alle percussioni rumorose, e poi in tutto il mondo. Aprendo nel 1953 i programmi musicali della Rai – facendo il verso alla drammatica canzone portata al successo a Sanremo da Gino Latilla e Franco Ricci “…e la barca tornò sola”, ed ottenendo per ben tre volte il primo posto nella Hit Parade americana (primo musicista-cantante non in lingua autoctona). Poi il sodalizio con Mariano Rapetti (Ricordi. Davide Lorino) che lo affianca al paroliere Nisa (Nicola Salerno, Flavio Furno) da cui nascono canzoni come “Tu vuò fa l’americano (1954)”, “Torero (1957)”. Fino a quel gennaio 1958 che vede il suo sestetto salire al proscenio della Carnegie Hall alla 7th Ave a New York.
Tornato in Italia, Carosone abbandona per dedicarsi alla sua famiglia. Ma nel film c’è anche il Carosone privato che ama follemente la sua Maruzzella (1954) Lidda e suo figlio Pino: sembra qui riecheggiare la definizione-distinzione di Totò tra genitore e padre. Renato suona perché ha un dolore dentro fin da piccolo – un dolore privato – che trasforma in gioia. Non solo swing e jazz che si trasformano in boogie-woogie, ma filosofia della gioia: ed in un Paese agelasta come il nostro è quasi una rivoluzione. Questa è la cifra umana di Carosone, la morte non può averla vinta: ed è forse questa la cifra di quella Napoli che usciva dal Fascismo con una grande voglia di mettersi alle spalle quei dolori pubblici e privati ed essere Golfo aperto alle magnifiche sorti e progressive. Anticipatore Carosone, ma anche visionario di quello che sarebbe venuto fuori dopo, “perché si suona fino a quando si può fare una musica nuova”.