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Non c’è il male da una parte e il bene dall’altra, vale anche per Raffaele Cutolo

Oggi in Italia la brava gente non ama confrontarsi col male. Se vogliamo davvero comprendere, dobbiamo rinunciare alla dittatura delle vittime

Non c’è il male da una parte e il bene dall’altra, vale anche per Raffaele Cutolo
NAPOLI,09/02/1983 - TRIBUNALE DI CASTELCAPUANO, PRIMO INCONTRO FRA IMMACOLATA IACONE E RAFFAELE CUTOLO DURANTE IL PROCESSO ALLA NCO. PH. GIANNI FIORITO N°124

L’articolo-intervista di Titti Beneduce a Anna Viscito, figlia di Mario, la prima vittima di Raffaele Cutolo, fa emergere dall’oblio la vera storia di quella vicenda. Tutti hanno visto il film di Peppino Tornatore, molti lo hanno apprezzato, ma lì quell’episodio era stato ricostruito e narrato come un delitto d’onore. Cosa che non fu.

Otto colpi di pistola furono esplosi dal ventunenne Cutolo dopo che questi aveva quasi investito una dodicenne che, di conseguenza, inveiva contro di lui e che per tutta risposta veniva schiaffeggiata dall’uomo, con l’effetto di una furibonda lite con altri accorsi sul teatro dei fatti. Ad avere la peggio era il Viscito, giovane della stessa età del criminale. I colpi raggiungevano proprio costui, ritenuto reo di esser intervenuto a separare Cutolo da altro uomo, tale Giuseppe Laezza, cugino dello stesso Viscito.

Ciò è quanto riporta la cronaca dell’epoca (“Il Corriere dell’informazione” del 26 febbraio 1963, recuperato dai tipi di Spazio 70, sito che si occupa degli anni di piombo e più in generale di eventi che appartengono a quella decade e dintorni). 

La figlia di Mario Viscito, ora, accusa la pellicola di Tornatore di aver raccontato il falso, che peraltro è un falso così consolidato da esser riportato perfino sulla pagina di Wikipedia dedicata al camorrista: nessun delitto d’onore, effettivamente, ebbe a consumarsi e il giovane Cutolo intraprendeva invece la sua carriera di feroce bandito compiendo un delitto efferato senza un preciso movente che non fosse la follia pura.

Ora, ogni film è sempre anche un’opera di fantasia. Nel caso de “Il camorrista”, sebbene la fonte di ispirazione fosse l’omonimo libro di Giuseppe “Joe” Marrazzo, giornalista di razza e di stile unico, l’accento sulla fantasia resta forte ed è assolutamente dichiarato, come da didascalia che introduce la pellicola e che recita:

Questo film trae ispirazione da quel drammatico contesto, non solo meridionale, che ci appare dalle cronache giudiziarie e parlamentari e dalla pubblicistica sulla camorra. Gli autori non hanno preteso fare ricostruzioni storiche e tanto meno imporre come “verità” una loro versione dei fatti ma, con l’elaborazione fantastica di quelli avvenuti e con altri di pura immaginazione”.

“L’elaborazione fantastica”. Che fa di quell’esordio alla regia del 1986 un lavoro in questo non dissimile da altre fiction, da “Il padrino” alla serie netflix “Peaky Blinders” (ove si narra di una clan di zingari effettivamente esistito ma con ampie licenze di fantasia). Probabilmente, la trovata del delitto d’onore servì all’allora giovane regista a riportare il “caso Cutolo”, coerentemente con la tesi dell’opera, ad una dimensione “meridionale”, di arretratezza, di legame con valori arcaici, di visione della realtà che impasta spietatamente sangue e terra, onore e prepotenza, mala vita e ritualità tribale, il che nell’intento di Tornatore probabilmente avrebbe pure potuto e dovuto aggravare (ma anche ampliare) la responsabilità del futuro boss, aggiungendo il retaggio culturale. Senza il quale resta solo la follia delle motivazioni reali del gesto, se di motivazioni si può dire.

A meno che non si voglia ritenere meno grave un omicidio per ragioni di presunto onore, la “rielaborazione” dell’evento lasciava meno scampo ancora a Don Raffaè. Si potrebbe obiettare che sono punti di vista e che nei fatti una tale narrazione dell’avvio della ascesa del Professore vesuviano ne mitizza la figura. Ma è pericolo che si può registrare solo per chi condivide quel malinteso senso dell’onore. Siamo alle solite: la teoria della emulazione non regge. E come dice Dylan Dog (o meglio, come fa dire Tiziano Sclavi a Dylan Dog) a proposito di un serial killer avido spettatore di film dell’orrore: “In mancanza di certi film, sarebbe diventato un assassino anche guardando Mary Poppins”.

Il tema della follia (lucida) di Cutolo resta ed è un tema importante. La follia del capo. Dei capi. Quella che si attribuisce ad esempio ad Hitler. Quella che qualcuno connette intimamente al potere tout court. Cutolo è uno che in carcere, come ricorda Francesco Palmieri in un bel pezzo per Agi.it, parla per mesi a una mosca, la alleva, ne fa una sua confidente:

“Per superare lo sconforto, la disperazione allevai una mosca. Sì, proprio una mosca e con questa inventavo dei lunghi discorsi, con domande e risposte. S’intende, ero soltanto io a parlare, per me e per la mia fedele amica mosca”.

Ma non era quello l’aspetto su cui volle focalizzare la sua attenzione Tornatore, quanto ciò che in qualche misura era stato già evidenziato dal libro di Marrazzo. Cutolo è il “cafone” sanguinario, vissuto lontano dal mare di Napoli, distante dalla sua mitezza, dall’epicureismo di chi vive intra moenia e dalla idea di riconoscimento reclamato che caratterizzò per esempio – per restare negli anni ’80 – i Giuliano. Centrale in lui è invece l’idea del riscatto sociale. Cutolo, da uomo di terra, è quello che incassa tutto come fosse naturale e fa di questa natura matrigna e solo angariante il suo timbro, un marchio di ferocia che caratterizzerà la sua particolare ribellione e un progetto di anti-stato, o di stato nello stato, che affascinò anche l’estrema sinistra in quegli anni.

«Il cafone ha lo stomaco forte, duro. Accumula le violenze, le frustrazioni, le privazioni, finendo col considerarle non più imposizioni, ingiustizie, angherie, prepotenze, ma prove inevitabili del destino, una condizione stessa della vita, un elemento come la pioggia, il sole, il vento».

Anni fa ebbi ad intervistare con altri il neofascista Franco Freda, sia pure in qualità di editore. Dalle reazioni a quella intervista mi resi conto di come in questo paese la brava gente, oggi, non ami confrontarsi col male. Meglio evitare rischi, fascinazioni, incomprensioni. Meglio restare in superficie, attenersi alla tranquilla visione manichea delle cose, che però non spiega, non interroga, non lavora. Ma è tanto consolatoria: da un lato il male, dall’altro il bene. Che ovviamente siamo noi. Noi borghesi, noi acculturati progressisti. È forse il portato di una cultura presente anche e soprattutto nella sinistra che, dopo la fine del marxismo, si è appiattito sul moralismo e oggi salda quest’ultimo con la correttezza politica imperante. Forse è per questo che in queste ore ci si lascia spiegare Cutolo da articoli che ne evidenziano solo la estrema crudeltà e la megalomania, senza dirci altro.

Purtroppo, è scomodo affermarlo, ma non serve guardare al male dal solo punto di vista delle vittime, specie quando si fa di questo approccio una vera e propria ideologia, una mistificazione nel nome della “dittature delle vittime”, come la chiama Gioacchino Criaco su Il Riformista, “fra quelle vere e dolorose, e quelle che si prendono le ingiustizie altrui per il proseguimento di un potere che è quello di qualche canzone”.

La camorra di Cutolo, va affermato senza che sia necessario farne un eroe romantico, fu politica e (sciagurato) meridionalismo, aveva una strategia forte, mirava ad unire i reietti e traeva forza dal desiderio di rivalsa sociale. Che non era tanto della città di Napoli – che in quegli anni non ne nutriva più del resto del sud – quanto di Cutolo stesso. Che napoletano, in senso stretto, forse non era. In Cutolo c’è il dolore e ci sono i fantasmi. C’è la terra e c’è il sangue. Nulla che mitighi tutto ciò. Proprio come nelle immagini che aprono il film di Tornatore. E la descrizione di un suo omicidio, nel libro di Marrazzo, chiarisce in maniera tremenda quel rapporto speciale con la dura legge di certi luoghi: «Furono attimi che allora mi sembrarono un’eternità. Impugnai la pistola e sparai al cuore. Vidi Michele scivolarmi davanti come il toro ai piedi del torero. Mi guardai intorno e, prima che gli uomini e le donne esplodessero in quel gesticolare confuso, tipici della comica piuttosto che della tragedia, lessi negli sguardi consenso e soddisfazione. Avevo ucciso, avevo rispettato la legge che dalle nostre parti cresce come l’erba gramigna persino sui muri sconnessi delle vecchie case. Ero un uomo di conseguenza, migliore e più forte del povero Michele riverso sul marciapiede con il sangue a flussi alterni, quasi con scatti meccanici, come trattenuto da un ultimo bisogno di vita».

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