Rivera: «Se qualcuno mi chiama ad allenare io ci sono. Il mio era un dono di Dio»
A Libero: «Ho fatto il corso, sono pronto. Puoi anche essere il Gesù Cristo del calcio in terra, ma se trovi un brocco disposto a correre più di te, ti può mettere in difficoltà».

Libero intervista Gianni Rivera, ex bandiera del Milan, è stato il primo Pallone d’Oro italiano nel 1969. Gianni Brera lo chiamava “abatino”.
«Puoi anche essere il Gesù Cristo del calcio in terra, ma se trovi un brocco disposto a correre più di te, ti può mettere in difficoltà».
Racconta la sua infanzia, la famiglia, i nonni contadini e il padre che lavorava per le ferrovie, aggiustando le locomotive.
« Quando sentiva la sirena che annunciava i bombardamenti, saliva in bici e andava a prendere mamma. Si faceva sei chilometri per raggiungere San Bartolomeo, dove si mettevano al sicuro in una delle camere della pensione dei nonni. Io sono nato il 18 agosto del 1943, durante una di queste “trasferte”».
Ha ricevuto un’educazione cattolica.
«I miei erano credenti e praticanti, io sono cresciuto all’oratorio salesiano di Don Bosco. Fin da piccolo ci andavo tutti i giorni per giocare a calcio, subito dopo la scuola. E le domeniche ci tornavo per la messa. Era l’unico posto dove potevamo giocare senza che i vigili ci portassero via il pallone. Quando ci beccavano ce lo sequestravano. Così iniziai al campetto: cinque contro cinque. Ma a una certa ora dovevamo smettere per andare a dire le preghiere. Qualcuno cercava di scappare per evitarsele; allora don Ceschia ci chiudeva in chiesa».
A quattordici anni e mezzo la sua prima partita importante.
«Contro l’Aik Stoccolma. Dopo l’esperienza all’oratorio mi fecero fare un provino per le giovanili dell’Alessandria. Feci gol, i giocatori della prima squadrami regalarono un pallone con le loro firme. Ero felicissimo».
All’epoca la vita dei calciatori era molto diversa da oggi.
«Molto controllata e rigorosa. Ma non mi costava, mi piaceva. Una sera vennero a suonare a casa, attorno alle nove. Era tardi e andammo tutti ad aprire, preoccupati. Era un dirigente dell’Alessandria: voleva verificare che non fossi uscito e stessi riposando».
Rivera parla dell’aldilà. «Ci saranno il Purgatorio, il Paradiso e l’Inferno. Ma non sappiamo come sono perché nessuno è tornato indietro a raccontarceli». Lui però non ha dubbi: andrà «sicuramente in Paradiso», come tutti i giocatori che ha conosciuto, dice, compreso il nemico in campo Mazzola («Sandro è una bravissima persona»).
Non teme la morte.
«Non ci penso, preferisco vivere il presente. E poi degli specialisti mi hanno detto che vivremo fino a 120 anni; quindi mi resta ancora tantissimo».
E non ha nemmeno paura del Covid.
«No, rispetto le regole, ma vorrei vivere in modo più allentato. Alcuni medici sostengono una cosa, altri l’opposto. Non sappiamo più dove attaccarci».
Durante il lockdown, racconta,
«Ho riflettuto molto, e ho maturato l’idea che potrei fare l’allenatore. Quando Ceferin, il presidente dell’Uefa, venne a Roma per ringraziare Tavecchio, disse che gli sarebbe piaciuto darmi il titolo di allenatore senza fare il corso. Tavecchio gli scrisse una formale lettera di richiesta, ma poi non se ne fece nulla. Ho fatto il corso. Quindi oggi sono pronto. Se qualcuno mi chiama, io ci sono».
Da quando si è ritirato, non gioca più a calcio, ma a tennis. Gli chiedono se crede ai miracoli e gli ricordano che Diego Abatantuono diceva che quello che lui faceva in campo offuscava i miracoli di Padre Pio. Risponde:
«Per qualcuno già prendere un pallone è un miracolo. Ma il mio era un dono di Dio».