Sul sito dell’istituto una lettera aperta a istituzioni, ragazzi e famiglie. «I dati di oggi sono più allarmanti di quelli di ottobre, come è possibile pensare di rientrare in presenza? La didattica 50-50 non funziona»
I docenti del Liceo Classico Pansini, di Napoli, hanno scritto una lunga lettera sulla ripresa delle attività in presenza. Disponibile sul sito della scuola, è indirizzata al presidente della Repubblica, a quello del Consiglio, alla ministra Azzolina, al governatore De Luca, all’assessore regionale all’Istruzione, Lucia Fortini e al sindaco de Magistris. Oltre che, naturalmente, agli studenti e alle famiglia. Una lettera aperta alla cittadinanza, scrivono nell’intestazione.
Il messaggio alle istituzioni è chiaro, scritto nero su bianco:
“tutto ciò che avete presupposto nell’approcciare la “questione scuola” è drammaticamente sbagliato“.
La crisi della scuola non è stata causata dalla pandemia, quella è servita solo ad acuirla. La crisi va avanti da anni, con i ripetuti tagli perpetrati all’istruzione e all’edilizia scolastica. Bisognava esserne consapevoli, scrivono i docenti, invece,
“si è affrontato questo frangente gravissimo con la consueta leggerezza guascona, tirando avanti con slogan vuoti e tristemente lontani dalla complessità del reale, agendo su un singolo, marginale aspetto, e lasciando all’antica incuria tutto il resto”.
Le istituzioni hanno dimenticato che molte scuole non hanno edifici né sistemi di areazione a norma, non hanno riscaldamenti efficienti, né personale sufficiente. Che le classi contano anche 27 alunni e le aule sono “ridicolmente piccole”, che i ragazzi
“sono quotidianamente costretti a raggiungere gli istituti stipati come bestie in autobus o vagoni-metro sempre insufficienti, che nei bagni mancano persino sapone e carta igienica”.
Durante la prima ondata, continuano, le scuole superiori sono state fisicamente chiuse e la didattica in presenza è stata convertita in DaD. Non si poteva fare altro. Il governo, poi, ha avuto l’idea dei banchi a rotelle per risolvere il problema, un’idea che i docenti definiscono esempio dell'”approssimazione e l’infantilismo dissennato che hanno fatto da sottofondo alla gestione di questa ennesima emergenza”.
Durante la DaD, scrivono, nelle scuole non si sono fermate le riunioni, i consigli, la programmazione didattica e neppure la produzione di materiale per svolgere le lezioni o le correzioni dei compiti.
“per tacere del fardello emotivo e psicologico derivante dalla gestione di un disagio doloroso e diffuso tra le studentesse e gli studenti; un disagio nuovo, strisciante, sconosciuto, che ci siamo caricati sulle spalle con empatia e consapevolezza, consci (noi lo siamo) della delicatissima e a tratti distopica contingenza, in cui prima di tutto (e soprattutto) ragazzi e ragazze erano stati inopinatamente catapultati”.
E’ vero che la didattica a distanza
“ha isolato i diversamente abili, acuendone la solitudine nella distanza”
ma per questi ragazzi, scrivono,
“non può però dirsi accettabile la didattica in presenza nelle forme a loro proposte: gli orari sono sballati e i ritmi poco congeniali alla personalizzazione del curricolo, per non parlare delle oggettive difficoltà a rispettare il distanziamento e a comunicare attraverso mascherina e visiera”.
La DaD è stata e deve rimanere “una misura emergenziale”, continuano, ma “non vediamo quale altra opzione ci sia, al momento“.
“A marzo e a ottobre 2020, con una situazione epidemiologica di gran lunga migliore della presente, siamo stati collocati in DaD. Come è possibile che oggi, con dati più allarmanti di ottobre e al cospetto dell’evidenza inequivocabile che nulla è stato fatto per migliorare la condizione di docenti e studenti, voi riteniate di disporre un ritorno alla didattica in presenza?“.
Con questi presupposti, scrivono ancora,
“chi si assume la responsabilità umana, civile e penale delle conseguenze sulla salute fisica e psicologica di docenti e studenti a seguito di un ritorno in presenza?”.
Il ritorno in presenza significherà, per molti istituti, che metà classe sarà in aula e l’altra metà a casa.
“Chi propone questo non ha chiaramente idea alcuna di cosa stia parlando”.
Anche perché le due forme di didattica, come è stato ripetuto per mesi dai pedagogisti, scrivono, sono completamente diversi, sia nella comunicazione che nella selezione dei contenuti, come pure nelle verifiche e nelle valutazioni.
C’è poi la questione della merenda. I docenti parlano anche di quella. Definiscono irrealistica, oltre che contraria a qualsiasi studio e al buon senso, l’ipotesi
“di impedire agli studenti di fare merenda anche per 7 ore”
come pure quella di sanificare spazi e pc alla fine di ogni ora. E’ poi possibile evitare gli assembramenti all’esterno delle scuole, data la voglia comprensibile degli adolescenti a socializzare?
La didattica 50-50 semplicemente non funziona, scrivono. Ci sono solo due possibilità, a questo punto:
“o garantire a docenti e studenti un ritorno in presenza al 100% e in sicurezza, previa somministrazione dei vaccini o assumersi la responsabilità civile e politica di certificare l’impossibilità di implementare la didattica in presenza e lasciare che le scuole superiori restino in DaD fino a quando chi di dovere non avrà la decenza di risolvere realmente questa situazione, attraverso misure concrete e coerenti”.
E concludono:
“Chiederci di immolare la qualità della nostra didattica e l’inclusività, che è bussola della nostra azione educativa e formativa, sull’altare dell’incapacità politica è un atto ingiusto e contrario a tutto ciò che ci sta a cuore. È l’ultimo e più grave attacco alla scuola di Stato e al riguardo non possiamo che esprimere il nostro più fermo dissenso e la nostra legittima indignazione”.