Non si può mandare a quel paese l’arbitro, lo dice il regolamento internazionale. Anche se le interpretazioni sono difformi
Sono passati 24 anni da quando Gennaro Gattuso ha fatto il suo esordio tra i professionisti. Probabilmente però ancora troppo pochi affinché sia chiaro che il calcio si è evoluto e col tempo ha combattuto per dare un ruolo centrale a determinati valori. Quello più importante addirittura campeggia con un’apposita patch sulle maniche dei giocatori che disputano la Champions League: rispetto. Verso tutti e per ogni motivo. Compagni, avversari, arbitri, tifosi. L’insulto pronunciato dopo una decisione del direttore di gara, peraltro corretta perché il rigore è solare, non è una condotta ammessa.
Quella lagna un po’ surreale del “solo in Italia” è fuori luogo anche da un punto di vista tecnico perché si riferisce alla corretta applicazione di più punti di un regolamento internazionale.
Non è consentito ai calciatori di rivolgersi agli ufficiali di gara esprimendo apprezzamenti o proteste. Il solo capitano, che è responsabile della condotta dei calciatori della propria squadra, ha diritto di rivolgersi all’arbitro, a gioco fermo o a fine gara, per esprimere, in forma corretta e in modo non ostruzionistico, riserve o per avere chiarimenti.
– Regola 5, pagina 51.Né il capitano né gli altri calciatori hanno il diritto di protestare contro le decisioni dell’arbitro o degli altri ufficiali di gara.
– Regola 5, pagina 57.(Un calciatore deve essere espulso se) usa un linguaggio o fa dei gesti offensivi, ingiuriosi o minacciosi.
– Regola 12, pagina 96.
Al verificarsi di tali infrazioni, constatate direttamente o su segnalazione di un altro ufficiale di gara, l’arbitro deve espellere dal recinto di gioco il responsabile.
– Regola 12, pagina 106.
Se a Gattuso può essere concessa l’attenuante di aver espresso il suo pensiero a caldo, è piuttosto inquietante invece che parte della critica abbia parlato di “permalosità dell’arbitro” nell’applicazione del regolamento. Purtroppo è vero che spesso il metro utilizzato è difforme, non solo da una nazione all’altra, ma anche da arbitri dello stesso paese. Tuttavia, più che puntare il dito verso chi adotta la decisione corretta, sarebbe opportuno stigmatizzare chi tollera un certo tipo di atteggiamenti.
Quel semplice giallo che Nicola Rizzoli mostrò a Totti nel 2008, dopo i tre “vaffa”, scandalizzò tutti. Fiumi di parole – purtroppo non quelli belli di Sanremo 1998 – furono detti e scritti per manifestare l’indignazione ed evidenziare la mancanza di carattere di un arbitro da poco nominato internazionale che non ebbe il coraggio di espellerlo. Rizzoli fu subissato dalle critiche, pensò addirittura di smettere. Ma il mondo del calcio, dopo aver diretto tutte le finali più prestigiose (Mondiali, Champions, Europa League), lo ringrazia per aver tenuto duro.
I tempi saranno anche cambiati, ma oggi come allora questo è un comportamento da censurare. Non riconoscerlo è molto grave. Nella migliore delle ipotesi significa non conoscere il regolamento del calcio, quindi la materia con cui si lavora o di cui si scrive. Chiedere di tollerarlo è anche peggio, perché trasmette un messaggio radicalmente sbagliato: la non applicazione di una regola, che si poggia su un valore fondante del senso civico e dello sport. Suona retorico, ma è così. Un giorno per un caso del genere, al posto del “solo in Italia”, ci auguriamo di sentire “meno male che in Italia”. La chiosa migliore è quella che ha provato ad opporre Marco Bucciantini, prima che Gattuso lo interrompesse per far valere le sue focose ragioni, negli studi di Sky Sport: “Non esistono momenti giusti per le parole sbagliate”.