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Achille Lauro presidente del Napoli per dovere, ma spese due miliardi per la squadra

Obbedì al fascismo e comprò il club. Totò in tv gridò. «Viva Lauro». Accolse Vinicio con due schiaffoni, aveva capito tutto di Ferlaino

Achille Lauro presidente del Napoli per dovere, ma spese due miliardi per la squadra
Achille Lauro assiste a bordo campo a Napoli-Bari del 1959, la seconda partita disputata allo stadio San Paolo. È una delle tante perle dell'Archivio fotografico Carbone

Era figlio di un padroncino di velieri ed era nato a Piano di Sorrento nel 1887. Alla morte del padre, affittando, comprando e noleggiando ogni genere di naviglio, creò una flotta di 29 navi. Era il 1936 e divenne l’armatore Achille Lauro, a 49 anni. Aveva fatto soldi con la patria, trasportando soldati su due vascelli nella guerra d’Etiopia, e divenne uno degli uomini più ricchi d’Italia. Mussolini disse: “Quel Lauro sta diventando un pesce troppo grosso”.

Fu il federale di Napoli Nicola Sansanelli a trascinarlo nel calcio. Dal fascismo aveva avuto molte agevolazioni per la flotta e Lauro dovette ubbidire andando in soccorso al Napoli che aveva 800mila lire di debiti. Cominciò una storia durata trent’anni. Da mecenate a presidente del Napoli dal 1936 al 1940 e dal 1952 al 1954, in seguito padrone del club azzurro dietro le quinte, mettendo un suo uomo alla presidenza, l’industriale conserviero Alfonso Cuomo di Nocera Inferiore, prima di arrendersi all’arrivo di Ferlaino che, liquidandone il credito di 430 milioni, lo escluse dal Napoli prima della morte a 95 anni nel 1982.

Il miglior piazzamento del Napoli di Lauro fu il quarto posto, raggiunto nel ’53 e nel ’58. Ma dovette sopportare anche due retrocessioni, nel ’61 e nel ’63. Il figlio Gioacchino, che pose alla presidenza nella stagione ’66-’67, fece meglio conquistando un secondo posto.

Gli allenatori di Lauro sono stati Mattea, Payer, Baloncieri, Monzeglio (assunto già da Musollino), Amadei, Frossi, Naldi, Pesaola. Gli acquisti più importanti: Nereo Rocco, Gramaglia, Italo Romagnoli, Arce, Mike, Vinyei, Comaschi, Castelli, Jeppson, Bugatti, Di Giacomo, Vinicio, Del Vecchio, Pivatelli, Gratton, Tacchi, Girardo, Ronzon, Corelli, Pontel, Canè, Humberto Rosa. Fu il presidente dei debutti dei napoletani Mistone, Juliano, Montefusco.

Ingaggiò l’eclettico Romagnoli sul campo. Il giocatore segnò un gol al Napoli con la Lucchese allo Stadio Partenopeo. Lauro, che era in panchina, entrò sul terreno di gioco, lo avvicinò e gli disse: “Guagliò, vuoi venire a giocare a Napoli?”. Romagnoli, vedendolo arrivare di corsa, aveva pensato che volesse picchiarlo.

Il Comandante, com’era chiamato, vestiva spesso di bianco, i pantaloni tirati sulla pancia, e aveva una sua rozza suggestione, l’arte del comando, un linguaggio spiccio, le mani e il petto pelosi, la faccia abbronzata, chiazzata da macchie di sole, un naso borbonico e gli occhi, belli, color del mare.

Assunse la presidenza del Napoli il 15 marzo 1936. Fece pochi acquisti, rimettendoci di tasca 60mila lire, teso a sanare il bilancio. Chiamò al suo fianco l’ex giocatore Innocenti che doveva dirgli tutto quello che succedeva nello spogliatoio azzurro. Cominciò ad appioppare multe salatissime ai giocatori. Deluso dai primi campionati (un tredicesimo, un decimo, un settimo posto), urlò: “O dentro o fuori”. Il Napoli a metà classifica gli faceva rabbia. Nel ’39-’40 conquistò una risicata salvezza. Incombeva la guerra. Mise nelle casse del Napoli 700mila lire, lasciando la società in pareggio, e si dimise.

Nel 1952 fu richiamato a dare una mano finanziando la campagna-acquisti. Prese dodici giocatori e il solo Castelli gli costò 40 milioni. Accettò la presidenza per due anni. Nel ’52-’53 rinunciò a 50 milioni di credito e ne versò altri 50 nelle casse della società, ma impose anche a tutti i soci di rinunciare ai crediti che vantavano nei confronti del Napoli. Per nove anni presidente onorario, lasciò la presidenza effettiva ad Alfonso Cuomo. Stupì per il dispendioso acquisto dello svedese Jeppson nel 1952 (75 milioni all’Atalanta e 30 al giocatore).

Impegnato in politica, sindaco di Napoli, usò spesso la squadra per la propaganda elettorale facendole giocare gare amichevoli di qua e di là. Passeggiava ai bordi del campo, nelle domeniche delle partite, sventolando un fazzoletto bianco che poi annodava ai quattro lati mettendoselo in testa, per proteggersi dal sole o per ripararsi dalla pioggia, seduto in angolo del campo con i pantaloni tirati al ginocchio. Totò lo ammirava. Una volta, al “Musichiere”, gridò: “Viva Lauro”. Il ministro Tambroni escluse l’attore napoletano dalla televisione.

Affidando i lavori stradali di Piazza Municipio al conte Mario Vaselli, costruttore romano e presidente della Lazio, si fece dare da lui il brasiliano Vinicio, che il conte aveva opzionato per il club laziale. Sorprese il campione brasiliano al primo incontro negli uffici della Flotta Lauro mollandogli due ceffoni che era il suo modo esagerato di dimostrare simpatia alle persone. Poi gli fece da testimone di nozze. Onorò il matrimonio di un altro calciatore azzurro, Luciano Comaschi, facendogli da compare di anello. Avendo preso in antipatia Jeppson, che gli era costato molto e, dopo la prima stagione, rendeva poco, infortunato e perché voleva andarsene all’Inter, Lauro non andò al matrimonio dello svedese che si svolse al Faito, la montagna turistica sopra Castellammare di Stabia.

Allo stadio e in consiglio comunale aveva un claque prezzolata che gli gridava: “Cumandà, si’ bello”. Una sua prorompente fedelissima, Nanninella ‘a chiattona, usava gridargli più spudoratamente: “Cumandà, vuie tenite ‘o piscione e non dovete morire mai”. Riceveva gli allenatori di mattino presto sulla terrazza della villa di via Crispi, nudo d’inverno e d’estate, il suo modo di essere salutista, sconvolgendo la vita delle monache di un vicino convento.

Acquistò Canè per posta. Il procuratore Josè Da Gama gli mandò tre fotografie di giocatori dal Brasile e lui scelse “il più nero e il più brutto” perché, disse, avrebbe fatto paura ai terzini. Nel ’60-’61 prese Gratton e Pivatelli per vincere lo scudetto, ma finì in serie B. La stessa sorte gli toccò nel ’62-’63. Affidò il Napoli a Roberto Fiore regalandogli Omar Sivori. Per convincere Agnelli a cedergli l’asso argentino pagò 90 milioni alla Juve e commissionò alla Fiat i motori per le sue nuove navi.

Ai suoi tempi, Paolo Uccello, nella Palazzina rossa del Vomero, fu il fedele segretario del Napoli. In uno dei periodi di crisi della squadra, Lauro assunse lo psicanalista Luigi Ammendola. Allo stadio, durante la sua presidenza, si susseguirono incidenti e invasioni di campo. La più memorabile avvenne il 28 aprile 1963, giorno di elezioni, partita Napoli-Modena. Qualcuno disse che la folla fu usata per compromettere gli esiti elettorali del Comandante.

Coccolò e sabotò Roberto Fiore. Lasciò il Napoli a Ferlaino profetizzando: “’O guaglione nun è fesso e ci farà fessi”. Con Ferlaino, finì il predominio di Lauro nel Napoli. Chiuso col calcio a 82 anni, continuò a recarsi nel suo ufficio alla Flotta, un palazzo di dodici piani, tutto vetro, cemento e cartongesso, davanti al porto. Ma dalla poltrona chiodata di pelle blu, nella stanza con le colonne di onice, il mappamondo e un grande arazzo marinaro alle spalle, non dava più ordini a nessuno. Si spense nel 1982 e, intanto, la Flotta era fallita. Quel che restò del suo patrimonio andò all’asta. Giorgio Armani comprò per nove milioni il biliardo di Orazio Nelson che il Comandante aveva, tra gli oggetti più preziosi, nella sua villa di via Crispi. Nel corso dei suoi anni nel Napoli pare abbia investito due miliardi per potenziare la squadra.

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