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Nino D’Angelo: «Sono stato depresso. Il caschetto era una prigione da cui non potevo fuggire»

A Sette: «Tre anni di cure, faticavo ad alzarmi dal letto. Non se ne esce mai completamente. Ho trovato uno scopo: l’amore per i miei figli. Mamma e papà mi hanno insegnato la dignità, la ricchezza della povertà».

Nino D’Angelo: «Sono stato depresso. Il caschetto era una prigione da cui non potevo fuggire»

Su Sette, settimanale del Corriere della Sera, una lunga intervista a Nino D’Angelo. Si definisce stremato dal lockdown, ma con progetti da lanciare, tra libri, ritorno sul palcoscenico e la ripresa dei concerti. Ricorda alcuni aneddoti della sua infanzia, come quando la professoressa di italiano lo chiamò «il poeta che non sa parlare».

«Prima media, il tema da svolgere era: descrivete il vostro papà. Lei era una bella signora di mezza età con due figli e un’esistenza non facile. Venne dritta verso di me. Credevo mi volesse castigare. Invece chiese: ma davvero l’hai scritto tu? Si era commossa. Mi regalò il primo momento di gloria. Convocò mia madre e le raccomandò di farmi studiare».

Ma la famiglia non poteva permetterselo.

«Eravamo troppo poveri: bisognava lavorare presto per aiutare la famiglia. Così dopo la terza media andai a vendere gelati alla stazione centrale. Vivevo in strada e rischiai di perdermi».

Il padre, racconta, era un calzolaio, ma poiché a San Pietro a Patierno c’erano molti che facevano il suo lavoro, fu costretto ad emigrare al Nord.

«Sgobbava come muratore per mandarci pochi soldi. Mamma e papà mi hanno insegnato la dignità, la ricchezza della povertà».

Iniziò come cantante di matrimoni, poi, nel 1976, il suo primo disco, grazie ad una colletta familiare.

«Si chiamava ‘A storia mia (‘O scippo). Mamma partecipò, papà non ne voleva sapere. I soldi li mise quello che poi sarebbe diventato mio suocero. Un eccezionale scopritore di talenti. Mi portò a casa sua e io mi innamorai di sua figlia, Annamaria. Ci sposammo nel 1979, avevo 22 anni».

Il continuo confronto con Mario Merola, per distinguersi dal quale, dice, inventò il pop napoletano. Arrivarono i film.

«Feci il primo film, Celebrità, ispirato all’album omonimo, accanto a Regina Bianchi. E più tardi ‘Nu jeans e ‘na maglietta con Bombolo e Cannavale che tenne testa negli incassi a Flashdance».

Poi, gli anni Novanta e la depressione.

«Un periodo buio. Avevo tutto e non sapevo più come riempire la mia vita. Mi sentivo scollegato. Il caschetto era una prigione da cui non potevo fuggire. Nel frattempo, mamma e papà erano morti. Tre anni di cure, faticavo ad alzarmi dal letto. In realtà non se ne esce mai completamente. Ho trovato uno scopo: l’amore per i miei figli».

D’Angelo racconta di essere stato vittima del pregiudizio.

«In Italia mi schifavano e io suonavo all’Olympia di Parigi e al Madison Square Garden di New York. Alla presentazione di Tiempo, l’album della rinascita, vennero anche i critici e gli intellettuali che mi avevano sempre snobbato. Fu Goffredo Fofi, a cui mi legavano le esperienze cinematografiche, a sdoganarmi. Gli era piaciuto Ciucculatina d’ ’a ferrovia e disse che ero la vera voce del sottoproletariato napoletano».

Su Napoli:

«Napoli è la mia vita. Una città vedetta che prima del Covid era vivace e creativa. Amo le persone perbene che la abitano: sono più numerose della gente permale da cui spesso vengono sovrastate. Dice il testo di ‘Nu napulitano: «I napoletani sono quelli che ti ringraziano sempre». Quando tre anni fa, per festeggiare i miei 60 anni, ho cantato al San Paolo sold out, ho pianto di gioia. In quello stadio dove ho visto giocare Sivori e Maradona ho pensato a Totò, a Eduardo, a Raffaele Viviani, al ragazzo con il caschetto e all’uomo che sono diventato e ho pensato che davvero è valsa la pena arrivare fin qui».

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