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«Ricordo l’odore dell’aria dopo il crollo del Morandi: sapeva di cemento, pietra sgretolata e ruggine»

La Stampa intervista Alejandro Cordova, il primo a recarsi sul posto dopo il crollo «Auto sparpagliate, fumo che usciva dai cofani, tergicristalli ancora funzionanti. Non si sentivano lamenti, solo la pioggia che batteva forte» 

«Ricordo l’odore dell’aria dopo il crollo del Morandi: sapeva di cemento, pietra sgretolata e ruggine»

La Stampa intervista Alejandro Cordova, il primo ad accorrere sul luogo del disastro quando il 14 agosto del 2018 il Ponte Morandi crollò trascinando con sé 43 vite. Lavorava a poco più di 200 metri in linea d’aria dal viadotto. A 23 anni si ritrovò ad essere il primo soccorritore, a correre tra le macerie per cercare di aiutare chi era rimasto incastrato nelle auto. A cercare persone ancora in vita. Qualcosa di difficile da dimenticare. E infatti non dimentica. Ricorda persino l’odore del ponte crollato.

«C’era uno strano miscuglio nell’aria: sapeva di cemento, di pietra sgretolata e ruggine. Pioveva tantissimo. E c’era quel mix che non ho mai più sentito. Una scena da film: le auto sparpagliate qua e là, il fumo che usciva dai cofani, i tergicristalli che continuavano ad andare. Però non si sentivano lamenti, silenzio assoluto. C’era solo la pioggia che batteva forte».

Poi cominciò a vedere qualcosa.

«Ho visto un ragazzo incastrato tra le lamiere: era cosciente e rispondeva mentre l’autista del camion si stava strozzando con la cintura. Ho capito che mi stavano morendo davanti e che dovevo fare qualcosa».

Racconta che quel giorno era arrivato al lavoro alle 9,30, e che intorno alle 11.15 iniziò a piovere. Grandine, vento, secchi d’acqua che sembravano cadere dal cielo. Poi, alle 11,36, il crollo. Alejandro inizia a filmare col cellulare, ma si dirige verso la zona della tragedia, mettendo il telefonino in tasca. E quel telefonino, pur non mostrando più immagini, ha continuato a registrare l’audio dei suoi passi, le urla alla ricerca di sopravvissuti.

«Arrivati tra le macerie abbiamo iniziato a urlare: “Suonate! Suonate!”. Volevamo capire se qualcuno era ancora vivo. Ma nessuno lo faceva, così ci siamo diretti verso le macchine. La botta era stata così forte che tutte le portiere erano incastrate e non riuscivamo ad aprirle. Avrò visto otto vetture. Le persone che erano dentro non riuscivano a rispondermi con le parole ma emettevano dei suoni».

Alejandro ricorda i volti di chi era bloccato.

«C’era una coppia di anziani in un’utilitaria. E poi quattro ragazzi che erano in viaggio insieme verso la Spagna. A un certo punto ho visto Stella che era in auto con il fidanzato. Rispondeva anche lei agli stimoli, apriva gli occhi e cercava di guardarmi. Le ho detto: “Tieni duro, stanno arrivando”. Ma i soccorsi sono stati ostacolati dagli automobilisti che si sono fermati a guardare. Ci avranno messo una decina di minuti. Noi nel frattempo abbiamo cercato di aiutare come potevamo. A tutti dicevamo: “Cercate di rimanere vivi!”. Poi quando le sirene si sono avvicinate abbiamo deciso di lasciare fare ai professionisti e di andare via».

Non si perdona il fatto di non essere riuscito ad aprire quelle portiere, all’inizio, racconta, era arrabbiato con se stesso. Ma più di quello che ha fatto non avrebbe potuto fare. Domani sarà inaugurato il nuovo ponte, costruito sulle macerie del vecchio Morandi.

«Non c’è niente da festeggiare. E’ assurdo pensare che le persone a cui vuoi bene non ci siano più perché è crollato il Morandi. Eravamo certi che sarebbe durato per sempre. Sì, ora ce n’è uno nuovo, ma quella ferita non si cancellerà mai».

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