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«Napoli è tutto e troppo. E’ un mondo, è come se non ti fosse data la possibilità di uscirne»

Silvio Orlando a La Stampa: «Quando reciti, essere napoletano comporta uno stereotipo micidiale, rischi di entrare in un loculo da cui non esci più. Mi sento orfano, ho iniziato a recitare per bisogno di amore e di attenzione» 

«Napoli è tutto e troppo. E’ un mondo, è come se non ti fosse data la possibilità di uscirne»

La Stampa intervista Silvio Orlando, che questa sera nel Cortile della Reggia del Bosco di Capodimonte dirige e interpreta “La vita davanti a sé” per il Napoli Teatro Festival. Racconta che durante il lockdown ha ricominciato a suonare il flauto, per la “gioia” dei vicini. Il tempo dell’isolamento

«non è stato né morto né sprecato. E poi ho letto libri che da tanto volevo leggere. Alla fine le giornate erano frenetiche, arrivava la sera e mi rendevo conto di non essere riuscito a fare tutto quello che avrei voluto».

Parla della genitorialità come di un chiodo fisso.

«Invecchiando la paternità è sempre di più il mio pallino. Non sono stato figlio perché ho perso mia madre molto presto, ma non sono stato nemmeno padre, per me questo è un territorio sensibile. Mi sento soprattutto orfano e, quando vado a indagare nelle motivazioni profonde per cui faccio questo mestiere, sento sempre che alla base c’è la ricerca di amore, di attenzione, il bisogno di riparare a un deficit».

Il bisogno di un uomo di diventare padre è diverso da quello della donna, spiega.

«Per una donna esiste un’età, tra i 30, 40, 50 anni, in cui la necessità di un figlio può diventare drammatica, poi si stempera. Per un uomo è tutto il contrario, all’inizio non ci si pensa nemmeno, poi cresce dentro il vuoto. Per un uomo avere un figlio è quasi un fatto culturale, per una donna è antropologico, biologico».

Orlando ha lavorato sia con Nanni Moretti che con Paolo Sorrentino, racconta quali sono le differenze tra i due.

«Tenerli insieme nella stessa vita è già una scommessa. Sono molto diversi, l’arrivo a Nanni è stato in qualche modo naturale, è il cantore della nostra generazione. Con Paolo, invece, è stato un fulmine a ciel sereno, venivo da un paio di anni micidiali, del cinema mi ero un po’ disamorato. La chiamata di Paolo è stata come un segno, un regalo inaspettato, ho dovuto cancellare con un colpo di spugna l’idea che il pubblico si era fatta di me. E poi bisognava confrontarsi con una macchina infernale, con la durata gigantesca di una serie, con il fatto che il Pope sia un film in costume, con un cast enorme, con un regista che poteva chiedere tutto. Con Paolo è così, si va avanti senza provare, senza preparare, o bere o affogare. Sia Moretti che Sorrentino sono dei capiscuola, questo sviluppa un carattere irremovibile, non troppo dialogante. Partono da loro stessi, però mentre Paolo inizia dallo stile, Nanni fa il contrario, comincia da quello che vuole dire, dall’autobiografia».

Parla del suo rapporto con la fede.

«Con la religione ho sempre avuto un rapporto un po’ distratto, poi, con l’età, certe domande te le fai più spesso. La fede è qualcosa di veramente misterioso, da un lato non regge a un esame razionale, dall’altro
la convinzione che qualcosa ci sovrasti ha un richiamo molto potente. Ce ne siamo accorti proprio in questi mesi di pandemia, è bastato un virus per mettere in ginocchio il mondo ed è difficile pensare che non ci sia dietro un disegno. Quando l’uomo cerca di diventare Dio di se stesso combina pasticci irreparabili, io questo sentimento lo avverto forte. Tutt’altra cosa, naturalmente, è la struttura religiosa e come la si interpreta. Ecco, tenere insieme la vita secolare e quella dello spirito mi sembra un affare molto complicato».

E racconta cos’è per lui Napoli.

«È tutto e, nello stesso tempo, è troppo. Le radici sono quelle, e, con l’età, te ne accorgi sempre più. Quando inizi a recitare, essere napoletano comporta uno stereotipo micidiale, rischi di entrare in un loculo da cui non esci più. Napoli è già un mondo e, proprio per questo, è come se non ti fosse data la possibilità di uscirne».

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