È la cancel culture, via dai giornali (pure dal Nyt) chi ha idee controcorrente

I social bastonano commenti che non si adeguano al letto del fiume su vari argomenti. Al Nyt lascia l'editorialista Bari Weiss accusata di essere nazista solo perché conservatrice

I social bastonano commenti che non si adeguano al letto del fiume su vari argomenti. Al Nyt lascia l'editorialista Bari Weiss accusata di essere nazista solo perché conservatrice

Si chiama “cancel culture”, “cultura della cancellazione”. Meglio ancora: “dittatura del politicamente corretto”. La settimana scorsa 150 intellettuali hanno pubblicato una lettera aperta diffusa dalla rivista Harper’s sulla tendenza in atto da un paio d’anni di mettere alla gogna o boicottare personaggi pubblici che esprimono considerazioni controverse su temi delicati: il razzismo, il sesso, il genere. Si tratta di un fenomeno vendicativo che funziona benissimo sui social, che punta gli autori, le persone, più che i contenuti stessi. La “cancellazione” dell’opinione, con attacco personale: tutti razzisti, sessisti, omofobi, transfobici, intolleranti.

E’ il cedimento (strutturale) dei media al mercato dei commenti: il dibattito tra opposte posizioni, la pluralità delle voci, passano in secondo piano rispetto al tribunale dei social. La base – che si suppone si trasformi in lettori, ma mica è detto – si aspetta che il giornale traduca i “giusti” valori, e se ciò non succede, se si dà spazio alla opposta corrente di pensiero, ecco che parte la caccia all’uomo. La chiamano “shame culture”, il conformismo come sopravvivenza. I giornali sui social ci campano. Dal Meetoo in poi bisogna muoversi coi piedi di piombo.

È la deriva culturale dell’abbattimento delle statue, della revisione delle opere d’arte di autori controversi del passato, delle squadre costrette a cambiare nome dopo un secolo di storia. Ed è arrivata fino al giornale più autorevole del mondo: il New York Times.

L’editoralista Bari Weiss, che era arrivata al Times dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca per rappresentare il punto di vista conservatore, ha dato le dimissioni denunciando “un ambiente illiberale e ostile” che l’ha “illegalmente discriminata”.

Weiss ha accusato con una lettera aperta il New York Times di censurare regolarmente opinioni di centro-destra, affermando di esser stata appellata come “nazista” da membri della sua stessa redazione. Accendendo un dibattito enorme, ha scritto che “in questo giornale la verità non è un processo di scoperta collettiva ma un’ortodossia già nota a poche elite illuminate il cui lavoro è di informare tutti gli altri”.

Le sue dimissioni seguono quelle del direttore delle pagine degli editoriali James Bennet dopo aver approvato e mandato in stampa un editoriale del senatore repubblicano Tom Cotton che perorava la necessità di usare le forze armate contro le proteste del movimento Black Lives Matter. Bari Weiss pubblicò una serie di tweet sull’addio di Bennet, raccontando di una redazione divisa tra giovani liberal e ultra-quarantenni. 

Nel frattempo Andrew Sullivan ha annunciato che venerdì pubblicherà il suo ultimo editoriale sul New York Magazine, poi lascerà per lo stesso motivo dei suoi “colleghi”.

La cancel culture che approda così prepotentemente nei giornali americani è interessante per la realtà italiana, oltre che per il fenomeno in sé, anche perché sottolinea dinamiche aliene, inspiegabili per il contesto italiano.  

Cotton per esempio è stato costretto a dimettersi perché ha ammesso di aver pubblicato l’editoriale della discordia senza prima averlo letto. All’estero hanno questo vizio di dimettersi – o essere licenziati – per motivi che da noi verrebbero processati come piccolezze: chi mai perderebbe il lavoro per una cosa del genere.

Bari Weiss, tra l’altro, ha solo 36 anni, l’età alla quale i più fortunati festeggiano un contratto di praticantato dopo la quindicina d’anni di gavetta di prassi. Al New York Times veste i panni dell’editorialista conservatore che ha evidentemente un mercato oltre che una spina dorsale, tanto da poter permettersi di lasciare il quotidiano più importante al mondo per una questione culturale e politica.

Sullivan ha vent’anni più di lei, è un gay conservatore che secondo il direttore del New York Magazine non poteva più funzionare perché scrive cose troppo distanti dai valori della testata. Sullivan è uno – per capirci – che nel 2013 mollò il Daily Beast per rendere indipendente il suo blog: “The Dish”. Aveva una forza tale da permettersi il lancio sul mercato di un blog a pagamento, da 20 euro al mese, senza pubblicità: uno dei primissimi casi, e certamente il primo tra i blog molto famosi, in cui si introduceva il paywall. Il suo blog era arrivato a fatturare un milione di dollari l’anno. 

 

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