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La voce interiore di Mertens

Pelè diceva: «Non penso mai a quello che farò una volta in possesso della palla. Gioco d’istinto, quasi ubbidendo a una voce interiore che muove i piedi nel verso giusto». Credo che anche Mertens l’abbia fatto

La voce interiore di Mertens

Molti sarebbero gli argomenti per questo primo articolo post lockdown, ma tutti (o quasi) scompaiono dietro la maglia numero 14 di Dries Mertens. Ebbene sì, un belga è il calciatore che ha fatto più gol con la maglia del Napoli, non solo più di Maradona e di Hamsik, puntualmente raggiunti e superati, ma di più di Careca, più di Cavani, più di Higuain, più di tutti quanti andando indietro, indietro e più indietro ancora.

Chi scrive è molto felice e non perché Mertens ormai a Napoli sia per tutti Ciro, ma perché il numero 14 questo record l’ha meritato, gol dopo gol, ruolo per ruolo, partendo dalla fascia, partendo dal centro, partendo dalla panchina, riserva di questo prima, di quest’altro poi, di un altro ancora. Sono cambiati gli allenatori e ogni volta ha dovuto ricominciare, se non da zero almeno da uno o da due. Non gli è stato consentito ripartire nemmeno dai gol e dagli assist fatti, dalle maglie sudate – tutte quante -, Mertens resettava, si allenava, entrava (prima o dopo) faceva sfaceli, raddrizzava partite, risolveva situazioni imbarazzanti e imbarazzava difensori avversari e allenatori nostrani. Ogni mister si è ricreduto, ognuno si è vantato di Mertens, Gattuso non lo ha ancora fatto, ma lo farà, è nell’ordine naturale delle cose calcistiche.

122 gol, quasi nessuno brutto, quasi nessuno banale. Tutti sono un misto di grande tecnica e intelligenza, una combinazione riuscita di fiuto del gol, di senso della posizione, di intuito e – consentitemi – di cazzimma, qualità (siamo per l’accezione positiva del termine) che a un attaccante non dovrebbe mai mancare. Mertens non ha risparmiato nessuno, non ha distinto tra Bologna e Liverpool, tra Lazio e Juventus, tra Fiorentina e Barcellona, tra Inter e Roma, tra Sampdoria e Genoa. Ha castigato tutti, inesorabilmente, costantemente, con considerevole frequenza e una invidiabile capacita di variazioni sul tema gol.

Mertens ha segnato di sinistro e di destro, su azione personale e (spesso) dopo un’azione corale, ha strappato la palla dai piedi dei difensori, ha fatto gol con pallonetti indimenticabili, con tiri incredibilmente piazzati all’incrocio dei pali. Ha fatto gol di testa, in anticipo. Ha fatto gol laddove tutti pensavano che fosse impossibile. Ha fatto gol spuntando all’improvviso dopo aver dormito una ventina di minuti, quando i difensori avversari pensavano fosse stato sostituito, squalificato, uscito, piazzato chissà dove, dietro un tabellone, a sollevare la bandierina del calcio d’angolo, a ballare con il guardalinee, a scherzare con un raccattapalle. Mertens ha fatto gol sempre e per sempre. Chi lo ha cercato lo ha trovato, chi ha provato a fermarlo ha spesso fallito.

Mertens non fa distinzioni, non ne è capace. È un professionista esemplare, sa arrabbiarsi e sa ridere, se ci resta male non si nasconde, può mettere un bolide su punizione a fil di palo e, dopo un paio d’ore, distribuire le pizze ai poveri. Quest’ultima cosa lo rende ancora più amato, ma ciò che conta è che segni di pomeriggio. Gli appassionati amano i calciatori bravi, che distribuiscano pizze o meno. Però ciò che fa Mertens fuori dal campo somiglia a quello che fa Mertens in campo, dà l’impressione di essere uno che creda che le cose possano essere cambiate e cambiate in meglio. Una pizza a un povero vale quanto un gol in Champions League ed entrambe le cose valgono per quella sera. Il giorno dopo c’è una pizza nuova da consegnare, un pallone da calciare in rete.

Negli ultimi dieci / dodici anni abbiamo visto giocare nel Napoli giocatori molto forti, per quello che mi riguarda, Mertens, Callejón, Cavani, Hamsik, Higuain e Koulibaly sono stati (e alcuni sono ancora) i più forti. Mertens forse ha qualcosa in più, qualcosa di non così facile da decifrare, qualcosa che sta a metà tra i Paesi Bassi e la Pigna secca, che raccorda in modo davvero straordinario il nostro centro storico e la pioggia di Anversa, che tiene insieme il fascino di Gand e via Caracciolo. Noi, che naturalmente tendiamo al Sudamerica, siamo pazzi per un belga, il primo dopo Poirot.

In un libro molto bello che sto leggendo in questi giorni, il grande scrittore – anche di sport – Giovanni Arpino (Lettere scontrose, minimum fax, 2020) scrive a Ezio Pascutti, e a un certo punto, per chiarire meglio un concetto: “Cito i classici, cioè Pelé: «Non penso mai a quello che farò una volta in possesso della palla. Gioco d’istinto, quasi ubbidendo a una voce interiore che muove i piedi nel verso giusto. A volte rivedendo i film delle mie partite, resto sbalordito: viste dal di fuori, alcune azioni paiono impossibili».”

Arpino poi aggiunge che di questa verità molto semplice chi segue il calcio non vuole rendersi conto e spesso è così. Però, capiamo, anche a distanza di molti anni, il brano di Arpino è del 1964, che per i grandi calciatori ogni tanto deve essere così, per i fuoriclasse sempre. Io credo che, qualche volta, anzi più di qualche volta, Mertens abbia ubbidito a quella voce interiore cui faceva riferimento Pelé. Quella voce che mi è parso di sentire ieri sera, nel silenzio sconcertante del San Paolo, quando l’ho visto spuntare nella parte alta del televisore, rapido e inatteso, a completare quella magia innescata da Ospina e da Insigne.

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