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La lunga notte del sarrismo (che è morto in un lago di sangue)

Come tutte le storie umane rivestite di lirismo melenso, è finita con la dolorosa discesa alla cruda e squallida realtà. Capitano Ringhio, pensaci tu

La lunga notte del sarrismo (che è morto in un lago di sangue)
Il compagno Zdanov

Sic transit gloria mundi. Qualcuno lo aveva scritto col sangue sui muri inceneriti della grigia fortezza che si stagliava minacciosa all’alba del ritorno repentino ed inaspettato dell’ancien régime e della sua soldataglia puteolenta che già puzzava di Palazzo. Il sarrismo era improvvisamente morto in un lago di sangue. Mozzata la testa al capo, il resto del corpo si agitava con sussulti animaleschi. Con la cesta del boia già piena di teste dai visi contratti in smorfie deformate, altri capi della rivolta si dileguavano nella macchia, chi cambiava velocemente casacca per non farsi sorprendere, chi offriva l’ultima strenua resistenza e veniva fucilato alle spalle, chi finiva per consegnarsi alle autorità che avevano in pochissimo tempo ripreso saldamente le redini del potere. Finiva così una grande avventura ed iniziava la lunga notte del sarrismo.

Mesi di silenzi ovattati e plumbei, poi d’improvviso rivelazioni fugaci, parole dette fuori dai denti, masticate e poi sputate come piombo, e poi un nugolo di proiettili e colpi di baionetta dritto nel cuore di chi restava ancora in attesa di un cenno del Magister e del suo Omnia Sunt Communia calcistico. Nei fumi e nella nebbia dell’ultima battaglia, tra le barricate riarse dei redivivi della rivolta, un vento freddo spazzava via l’odore acre del fumo dei cannoni ed il puzzo delle baionette mostrando agli astanti rivoltosi uno scenario apocalittico: il capo aveva lasciato le barricate ed era passato all’altra sponda senza colpo ferire. Il Comandante delle truppe sarriste sedeva fumando distrattamente su un monticciolo formato da sacchi di sabbia e i corpi oramai inerti dei rivoluzionari martiri per il collettivismo calcistico. Ossa scricchiolanti, denti stretti, mascelle scomposte ed un massa di corpi impilati di chi aveva creduto di sovvertire l’ordine prestabilito delle cose. Ritornava l’ordine di sempre, ritornava il regime questa volta più ringalluzzito perché si era comprato per un paio di sacchi di monete d’oro il loro capo. « Sono pecore, basta catturarne il pastore per farle tornare tutte nell’ovile » aveva detto Edoardo d’Inghilterra davanti alla rivolta scozzese. La più grande rivolta del Palazzo era stata sgominata non con un’operazione militare ma con una manciata di sacchi d’oro.

Finiva così come sempre finiscono la maggior parte delle storie umane che siano rivestite anche lontanamente del lirismo a volte melenso della favola epica e della tracotanza dei suoi eroi: con la dolorosa discesa alla cruda e squallida realtà, con il cinismo che muove le più profonde cose umane trasformando la verità in menzogna, con il bieco realismo che si fa beffe delle categorie del poetico con le armi dell’opportunismo politico. Quel capo passato all’altra sponda avrebbe potuto essere un eroe popolare da tramandare ai posteri – a chi avevano inciso frasi nella roccia ricordandone la bellezza? – avrebbe potuto essere l’epigono di un collettivismo solidale oramai scomparso, avrebbe potuto essere L’Homme révolté capace, nella sua discesa nell’essenza profonda delle cose, di sfuggire ad una realtà opprimente, sistemica e cristallizzata, capovolgendo con questa sua stessa presa di coscienza le sorti del destino. Ma così non fu perché le forze della Storia finiscono per ricomporre tragicamente qualunque frattura.

Era notte fonda quando l’ex capo si alzò in piedi sulle macerie tenendo in mano una lampada ad olio alla quale aveva applicato uno specchio concavo. Dietro di lui c’erano i generali ed i colonnelli che aveva combattuto aspramente negli ultimi tre anni. Stava indicando loro nel buio le linee di difesa, i baluardi da abbattere, le fragilità difensive dei rivoltosi. I sarristi, oramai accerchiati e stremati, giacevano pressoché inermi dietro trincee fatte di carri, vestiti laceri, corpi, macerie. Guardavano di là dal fosso sperando che il loro Comandante stesse ingannando le truppe nemiche con il classico coup de théâtre, e che la presa del Palazzo si potesse fare con un artificio retorico, alla stregua di Federico II che conquistò Gerusalemme con un accordo politico col Sultano d’Egitto. Ma così non fu. Le truppe nemiche si ricompattarono e fu proprio il Comandante sarrista, l’ex capo supremo delle truppe, a dare l’ordine alla cavalleria di spazzare via ciò che restava delle truppe rivoltose. Ci furono fuoco, fiamme, urla strazianti tutta la notte. Una notte lunga come una quarantena. Le autorità tacquero sul numero di morti e si disse che non si era salvato nessuno dalla carneficina. Il giorno dopo un giornalista pubblicò un lungo editoriale, una specie di canto funebre dal titolo « La lunga notte del Sarrismo ».

Nel buio pesto del cunicolo avanzava baluginando una lampada ad olio traballando e creando ombre mostruose proiettate sulle pareti. Una sagoma tarchiata e massiccia avanzava tenendo in mano una lampada a petrolio. Le sue mani, nel riverbero vangoghiano dell’oscurità, erano grosse e nodose, di lavoratore. Capelli arruffati, barba incolta, accento tagliente.
«Capitano Ringhio, di qua?» chiese timoroso una sagoma dietro di lui.
«Certo che sono sicuro, pensi che so scimunito? » gridò in stretto calabrese « Forza muovetevi andate avanti ! Forza!»

Da un passaggio laterale, coperto dal buio più denso dell’antro in cui avanzavano, sbucarono altri soldati. Avevano  visi pallidi ed emaciati, indossavano ancora i foulard rossi della rivolta ma erano ora anneriti dalla fuliggine dei colpi di cannone. Erano i sopravvissuti della grande battaglia del Palazzo. Nella semioscurità rischiarata solo dalla lampada ad olio del Capitano Ringhio, si intravedeva il viso spigoloso del rivoluzionario José lo smilzo, scampato alla fucilazione nascondendosi tra i cadaveri dei compagni. Dietro a tutti, il capitano Ospina, con il volto annerito e tumefatto, spingeva il soldato semplice Meret, una delle più giovani reclute di ciò che restava delle truppe rivoluzionarie. « Forza, tocca a te » disse al compagno, un ragazzone dagli occhi verdi schivo ma dal portamento fiero. Fu il Macedone a prendere la parola nell’oscurità: «Alessandro Magno, mio antenato, per sconfiggere i Persiani usò soprattutto l’intelligenza. Non dobbiamo assolutamente sfidarli in campo aperto. Dobbiamo costringerli ad incanalarsi in luoghi stretti, angusti, attirarli nella trappola e solo lì possiamo colpirli » diceva gesticolando nel buio. Aveva gli occhi spiritati.

«Hai ragione ragazzo – disse il Capitano Ringhio sputando una corteccia che masticava da ore per non sentire il dolore alle gambe. Giorni e notti a camminare nel buio ma ora la meta era vicina, il Palazzo infatti era proprio sopra di loro. Anzi, non era mai stato così vicino. Tu mi piaci macedone – disse il capitano Ringhio – sarai in prima linea. Dobbiamo essere umili. Il loro esercito è più potente, noi giocheremo d’astuzia. Umiltà e spalla a spalla. Mi raccomando. Ed ora andiamo». Le truppe si compattarono dandosi una pacca sulle spalla ed abbracciandosi e cominciarono lentamente ad avanzare nell’oscurità, verso il cuore nero del Palazzo: le sue fondamenta buie che nessuno s’era preso la briga di difendere. Loro, a differenza del loro ex capo che ora riposava baldanzoso nella stanza che i vecchi nemici gli avevano approntato, non avevano mai smesso di combattere. Se erano sopravvissuti alla carneficina dunque qualcosa significava. Il sarrismo era oramai morto ma la conquista del Palazzo, quella, era ancora possibile.

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