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Il ciclismo come il calcio. La logica dell’industria riduce il Giro d’Italia a corsa di paese

Il Giro si correrà in concomitanza con le Classiche del Nord e con la Vuelta. Ma chi vive realmente di mercato, come Mino Raiola, non piagnucola per paura di fallire

Il ciclismo come il calcio. La logica dell’industria riduce il Giro d’Italia a corsa di paese

Faremo presto un discorso sullo sport. Giustamente in Italia e non solo, i paladini del ritorno in campo dei calciatori stanno opponendo la forza dell’industria. Il calcio è un’industria, ci dicono, e snocciolano dati su dati sul fatturato e sull’indotto, e quindi poco importa che il calcio è uno sport di contatto e che per giocarlo si deve contravvenire alla regola base del mondo coronavirussizzato: il distanziamento sociale. Ci sono i soldi e c’è l’industria. Ne parleremo. A lungo.

Perché un’industria è un’industria sempre. Quando redige i bilanci. Quando deve dimostrare di tenersi sul mercato. E via dicendo. E noi siamo perfettamente d’accordo nel considerare il calcio un’industria. Altrimenti non avremmo nominato nostro idolo Mino Raiola, non lo avremmo proposto come ministro delle Finanze. Mino Raiola ha i conti in regola. Mino Raiola sa fare industria. Mino Raiola non piagnucola se il calcio sta fermo qualche mese per un’emergenza sanitaria mondiale. Mino Raiola non ha paura di fallire. Perché Mino Raiola il business lo sa fare. Noi siamo per l’industria. Non crediamo ai calciatori legati alla maglia. Alla poltiglia retorica che vorrebbero farci deglutire mentre organizzano il remake di rollerball.

Ma non è un problema solo del calcio. È affare dello sport in generale. Che non si regge se la giostra rallenta. E non regge l’indotto, informazione compresa. Che combatte quindi una battaglia sindacale. Gli sponsor non versano più i piccioli e addio. Succede anche nel ciclismo che comprime tutto il calendario in tre mesi. Dal primo agosto al 31 ottobre. E ovviamente anche qui l’industria segue i criteri del fatturato e del potere politico. Il Giro d’Italia conta pochino, ha pochi sponsor, almeno rispetto al Tour de France e quindi è meno tutelato. Si disputerà dal 3 al 25 ottobre. In quelle tre settimane, però, si correrano: Liegi-Bastogne-Liegi, Amstel Gold Race, Gand-Wevelgem, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix. Ossia tutte le classiche del Nord. Che – non ce ne vogliano gli organizzatori del Giro – valgono decisamente di più. Insomma il Giro d’Italia viene ridotto a corsa locale. Anche giustamente, non ne facciamo una questione campanilistica. Tra Tour e Giro c’è la stessa differenza che c’è tra Serie A e Serie B. E lo diciamo senza nemmeno scomodare Gianni Mura. E aggiungiamo che il 20 ottobre (cinque giorni prima che il Giro finisca) partirà la Vuelta. Insomma al Giro andranno quattro gatti. Una corsa paesana, sia detto col dovuto rispetto.

Nelle tre settimane del Tour de France, invece, dal 29 agosto al 20 settembre, non si correrà praticamente nulla. Fatta eccezione per la Tirreno-Adriatico. È come se le squadre e il ciclismo italiani fossero stati retrocessi in una sorta di Serie B della bicicletta (la Sanremo si disputerà l’8 agosto). Comanda sua maestà il Tour. È la logica dell’industria. Che noi, devoti di Mino Raiola, apprezziamo. Chi di fatturato ferisce, di fatturato perisce.

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