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Il virus non teme le minacce di Ceferin

Il calcio ha bisogna di un’altra visione che tenga conto della realtà. Bisogna adeguare il business alla situazione. Sbattere i pugni e minacciare non serve a niente

Il virus non teme le minacce di Ceferin

Qualche giorno fa, la Repubblica ha intervistato Aleksander Ceferin che dal 2016 è presidente della Uefa. Apparentemente un nome nuovo in un universo – quello della politica sportiva – che ha fatto molta fatica a produrre quel che abitualmente e anche superficialmente viene definito rinnovamento. Nel calcio prima Blatter e poi Platini sono stati spodestati a vicende giudiziarie. Il secondo ne è stato poi considerato estraneo.

L’intervista a Repubblica è stata ripresa da molti giornali nel mondo. Ceferin ha rilasciato dichiarazioni che hanno colpito.

«In questo momento drammatico la cosa più importante è la salute, uscire da questa crisi. Certo, il calcio interrotto simboleggia che l’Europa e il mondo si sono fermati».

«Nessuno sa quando la pandemia finirà. Abbiamo il piano A, B o C: siamo in contatto con le leghe, con i club, c’è un gruppo di lavoro. Dobbiamo aspettare, come ogni altro settore».

In realtà si è rivelato alla risposta su Atalanta-Valencia. Ha definito idiote le critiche.

Quando c’è stata Valencia-Atalanta, si giocava ancora dappertutto in Europa. Era a porte chiuse e sui tifosi radunati davanti allo stadio la giurisdizione era delle autorità spagnole. Ho sentito anche una critica idiota per l’andata a Milano. Il 19 febbraio nessuno sapeva che la Lombardia sarebbe stata il centro dell’epidemia. Chi eravamo per dire non si gioca? Ci sono autorità preposte».

È mancata la domanda su Liverpool-Atletico-Madrid che si è giocata quando l’Oms aveva già dichiarato la pandemia. La realtà è che il calcio ha rimediato una figuraccia che la metà basta. Se n’è fregato di quel che accadeva attorno. Ha anche esposto calciatori e tesserati al rischio contagio: è avvenuto per Rugani, per calciatori della Sampdoria, per il tecnico dell’Arsenal Arteta e tanti altri. La Uefa si è fermata quando sono cominciati i rifiuti delle squadre ad andare in trasferta, come fece il presidente del Getafe che disse no alla partita a Milano: “Ci squalifichino pure, a Milano non ci andiamo”. Era l’11 marzo.

Da allora, anche comprensibilmente e giustamente visto che è un’industria, il calcio ragiona quasi esclusivamente sul quando ripartire. È uno dei tre argomenti presi in considerazioni: gli altri due sono i diritti tv e gli stipendi dei calciatori.

Nessuno – non soltanto nel calcio a dire il vero – prende minimamente in considerazione che non sarà una parentesi, che il coronavirus non sarà una mosca che sarà scacciata con fastidio. È un universo che non si capacita di quel che sta avvenendo. Che si rifiuta di comprenderlo. E così ieri la Uefa ha mostrato il vero volto, che è quello della risposta su Atalanta-Valencia. Ha minacciato la federazione belga di esclusione dalle coppe europee se dovessero confermare la fine del campionato. Al fianco della Uefa ci sono anche l’Eca presieduta da Agnelli e l’associazione delle leghe europee. Ovviamente la minaccia nasconde la paura dell’effetto domino che di fatto congelerebbe la stagione.

Nel Regno Unito hanno rinviato ogni considerazione a fine maggio. In Spagna hanno preso tempo. In Italia la Lega Serie A è spaccata tra chi vorrebbe riprendere e chi no. Appena fuori dal mondo del calcio, c’è un’Europa che – con  l’eccezione Germania che ancora riesce almeno parzialmente ad arginare il fenomeno – è in balia del virus che ha costretto a ripensare gli stili di vita.

Quel che il calcio fatica a comprendere è che adesso sarà più complesso forzare la mano. Non potranno esserci altre Atalanta-Valencia, altre Liverpool-Atletico. Stavolta è ben chiaro che in ballo c’è la vita delle persone. Non solo dei giocatori e degli addetti ai lavori ma anche dei loro familiari e di tutte le persone con cui potrebbero entrare in contatto. Quando le sale di rianimazione traboccano di ricoverati, quando 700 morti al giorni cominciano a non fare più notizia, quando ciascuno ha almeno un conoscente che è stato portato via dal virus, il calcio si riduce a niente. Anche se è un’industria. È giusto che l’industria provi a difendere sé stessa, la propria esistenza. Ma occorrerebbe cambiare metodi. Occorrerebbe qualcuno che prenda atto della realtà. Non si potrà ripartire come se nulla fosse. Probabilmente, molto probabilmente, il giro d’affari non sarà lo stesso. Il passato andrebbe dimenticato. Si dovrebbe cominciare a ragionare in un’ottica di dopoguerra. Occorrerebbe una seria battaglia politica. Un Ecclestone del pallone, con una visione più ampia pur se basata sui profitti. Perché non è la logica del profitto a essere in discussione. Bisogna però comprendere come adeguarla a una nuova realtà. Di cui bisogna prendere atto. Respingerla con le minacce è solo un atto infantile.

Anche perché Ceferin e soci possono minacciare la federazione belga ma difficilmente con le loro minacce riusciranno a intimorire il virus.

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