Quel buco contro l’autoritarismo (su Netflix)
Il distopico film basco sembra dirci che la vera solidarietà spontanea può nascere solo nella libertà tra consociati formalmente eguali

Che film è il basco “Il buco” del regista esordiente Galder Gaztelu-Urrutia che ha vinto il Premio del pubblico al Toronto Festival e che è distribuito da Netflix? Dopo la visione non se ne ha un’idea precisa – data la sua distopia -: anche se il variegato spettro di generi che si susseguono – science, horror, thriller – si stempera in un finale messianico.
Il quarantenne Goreng (Iván Massagué) si ritrova in una cella con un altro detenuto, il sessantenne Trimagasi (Zorion Eguileor), che gli spiega essere in quello che si chiama “il buco”, una sorta di carcere livellato che ha per ogni ambiente due compagni di sventura. All’ora del rancio cala solo per pochi minuti una grossa piattaforma metallica che porta il cibo come un montacarico ai detenuti: ma chi si trova ai livelli superiori si abboffa, lasciando a bocca asciutta i costretti inferiori.
Dopo un mese, un gas addormenta tutti, e c’è chi sale e chi scende nella disposizione delle nuove allocazioni concentrazionarie: fino a raggiungere nel caso dell’espiazione la agognata vita esteriore con certificato di permanenza.
La quotidianità di Goreng, che aveva chiesto ad una sedicente Amministrazione – gerente di quello che poi si capirà essere il Centro verticale di autogestione – di entrare nel buco per smettere di fumare e di potere portare un libro, diventa infernale; ed è costretto ad uccidere Trimagasi per difendere la sua vita. Un’altra compagna di cella sarà l’ex impiegata dell’Amministrazione Miharu (Alexandra Masangkay) ed è lì che il film nonostante tutte le violenze – e l’incursione della misteriosa Mali (Zihara Llana) che si dice madre di una piccola bambina – si volge a conto filosofico: Goreng comincia a pensare – con la fame che sta trasformandolo in un pazzo – a come provocare una solidarietà non spontanea per generare una ribellione.
Al centro di tutto il testo del Don Chisciotte di Cervantes con l’anatema contro il ricco “vizioso che sarà vizioso grande”. L’impressione è che al di là del finale favolistico, il film – soggetto di David Desola affiancato alla sceneggiatura da Pedro Rivero – sia un attacco ad ogni forma di autoritarismo che abbrutisce gli uomini e che la vera solidarietà spontanea possa nascere solo nella libertà tra – formalmente eguali – consociati.