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Addio a Bertucco l’eroe di Napoli-Juve 4-3 al “Collana”: «Quanti clan in quel Napoli»

È scomparso a 83 anni. Lo ricordiamo con un brano del romanzo di Giuliano Capecelatro “Una domenica d’aprile” che sarà presentato mercoledì a Napoli. Bertucco racconta quel giorno e quel Napoli

Addio a Bertucco l’eroe di Napoli-Juve 4-3 al “Collana”: «Quanti clan in quel Napoli»

È morto Gino Bertucco. Un nome che dovrebbe dire tanto ai tifosi del Napoli. Un calciatore che ha segnato una delle partite più intense della storia del Napoli: la sfida alla Juventus del 20 aprile 1958, allo stadio “Collana” allora “della Liberazione”, partita che fu fatta giocare da Lo Bello con i tifosi assiepati ai bordi – bordi nel vero senso del termine – del terreno di gioco. Era la Juve di Charles, Sivori e Boniperti. E il Napoli di Pesaola, Vinicio, Bugatti, con Amadei allenatore. Finì 4-3 e lui realizzò il gol decisivo a due minuti dalla fine. Bertucco è scomparso due giorni fa a Sanremo, all’età di 83 anni. Ha giocato quattro stagioni nel Napoli, dal 1957 al 1961. Ha segnato sei gol, uno è passato alla storia.

Su quella partita è incentrato il bel romanzo di Giuliano Capecelatro (“Una domenica d’aprile”, Ianieri Edizioni) che sarà presentato a Napoli mercoledì 5 febbraio al Circolo Ufficiali della Marina Militare, in via Cesario Console. A dialogare con l’autore saranno Antonella Cilento, Angelo Petrella, Achille Pisanti. Coordina Massimiliano Gallo.

Di seguito, riportiamo un brano del libro.

Non vive vicino al mare, ricchezza e vanto naturali di Sanremo. Ma un po’ all’interno, discosto anche dalla splendida città medievale che si inerpica tra porte che si infilano uno dietro l’altra, tra anelli di mura che abbracciano la bellezza raccolta di piazza Nostra Signora dei Dolori, ricordo della peste scampata, o di piazza Cisterna, e raccontano dei successivi ampliamenti. Lanciando uno sguardo severo alla città moderna, modernamente caotica, congestionata. Aggrappata al feticcio della canzone, che ha qui il suo tempio dorato.

E vive discosto dal calcio, “oggi troppo esasperato”, il mondo in cui il ragazzo di Cadidavid, frazione di Verona, avrebbe forse potuto abbandonare il ruolo di gregario e trovare affermazione e gloria. Che quel giorno, il 20 aprile 1958, apparivano quasi a portata di mano. Tanto discosto da non essersi portato dietro neppure le poche foto che ha conservato di quelle stagioni. Sono rimaste a Verona, quando decise che Sanremo, conosciuta durante le vacanze, era il luogo più adatto per avviare una nuova vita.

Discosto dal calcio. Un uomo che ha conservato gesti e vitalità da ragazzo. Ampi spazi tra i capelli bianchi, tirati indietro; media la corporatura, che quasi non farebbe pensare a un atleta; occhi celesti e naso che si incurva e accentua così la lunghezza del viso magro. Un uomo attivo che, nella città d’adozione, è entrato in società con altri nel ramo della distribuzione. E non ha più messo piede in uno stadio.

“Ancora mi telefona qualche amico… ne ho lasciati a Napoli, i napoletani sono comunicativi, aperti, sanno essere veri amici… e ricordano, ricordano quel gol. Quella beffa incredibile alla Vecchia Signora del calcio, allo squadrone dei Boniperti, Sivori… uno spettacolo unico quando aveva la palla tra i piedi, non ne ho visti altri a quei tempi…, Charles. Eppure il gol, anche quel gol, lo trovavo una cosa normale, quando veniva. E a me veniva di rado.

In quel momento, non mi sentii di toccare il cielo con un dito. Né ci furono festeggiamenti dopo tra noi giocatori, o particolari premi-partita. L’unico cambiamento, per me, fu la macchina: dalla Seicento passai alla Millecento super.

A Napoli mi aveva voluto l’allenatore, Amadei. Era venuto su a vedermi due, tre volte. Avevo cominciato nelle giovanili del Verona. Lavoravo, alla Mondadori, e la sera andavo ad allenarmi. I miei lavoravano, avevano qualche terreno; mio fratello faceva l’orefice. Non dovevamo affrontare situazioni di ristrettezza. In- somma, non avevo un pungolo economico che mi spronasse ad affermarmi. Però venivo considerato una promessa. Ero partito da ala sinistra, poi mezz’ala, mediano… facevo un po’ tutto, correvo tanto. Un maratoneta, un portatore d’acqua.

Giù, invece, trovai tanti bei galletti nel pollaio… nello spogliatoio si erano formati dei clan… Vinicio voleva essere sempre al centro… non fu facile. Un pesce fuor d’acqua mi sentivo. Unico giovane in un mucchio di anziani… tanta gente con più di trent’anni… ognuno che pensava per sé. E una gerarchia rigida. Mi tenevo appartato. Ci provavo, almeno. Rispettavo tutti. Se appena tentavi di alzare un po’ la cresta, scattava il comando: «Portami le valigie». E io ero un uccellino in mezzo a quei falchi.

Casa e bottega… così la mia vita allora. Abitavo al Vomero, a due passi dallo stadio. Un appartamento diviso con altri compagni, ognuno con la sua stanza. C’erano Brugola, Di Giacomo… il bersagliere, Fontanesi, Novelli. Ero un po’ chiuso… non ero abituato a vivere fuori di casa. A mangiare si andava a piazza Vanvitelli.

Bugatti, se veniva, si metteva a un tavolo separato, per conto suo, mangiava da solo. Un uomo anche socievole, ma molto schivo, riservato.

Il Comandante, invece… quello ti riceveva in mutande sul terrazzo di casa… vicino piazza Amedeo. Ma io contatti diretti con lui non ne ho mai avuti. Era un tipo pacato. Soprattutto, sapeva quello che voleva. E aveva le sue simpatie: Vinicio, Comaschi. Decideva lui le formazioni? Me lo sono chiesto spesso, è rimasto un punto interrogativo.

Amadei mi piaceva, sempre disposto ad ascoltarti. Mi aveva assegnato il compito di andare su tutte le palle… di fare pressing… ero l’unico che correva. Anche quel giorno del 4-3 alla Juve, ma non feci una gran partita. Poi venne quel gol…

Spendevo un sacco di energie… ci davano il Micoren durante la settimana, prima della partita… il doping non esiste solo oggi… certo, non era così massiccio e spudorato. Veniva il medico: «Fa bene al cuore, ci diceva». E chi si azzardava a chiedergli qualcosa?

Di sicuro non ha funzionato con la Roma, l’anno dopo. Pioveva in tutti i sensi. Un rovescio incredibile: otto a zero. La squadra era smarrita; la domenica precedente aveva pareggiato a Napoli; durante la settimana era stata bersagliata di critiche. I dirigenti avevano fatto delle osservazioni pesanti, il presidente aveva richiamato tutti i giocatori. Amadei non aveva più il controllo della situazione. Forse non tutti si saranno impegnati al massimo. Ma è anche vero che quel giorno ci andò tutto male. Però, quando uno va in campo ci va sempre per fare il proprio dovere.

Io l’ho sempre fatto, il mio dovere. Checché se ne dica. Ma arrivarono i problemi. Mi infortunai in una partita col Genoa. Si ruppe una caviglia. Restai ingessato due, tre mesi. Quando ripresi, ne vidi di tutti i colori. La gamba non si reggeva. Giocavo dieci minuti e uscivo. Poi piano piano si riassestò, ma avevo tanta paura. Non giocavo quasi più. Mi rispedirono a Verona. Prestito. Ero ancora menomato, giocavo sporadicamente.

Qui beccai il colpo del ko. Proprio la partita col Napoli. Da lì inizia la mia disgrazia. Il Napoli aveva bisogno di due punti per tornare in serie A. Vinse… una punizione calciata da Corelli. Già, è passata alla storia: il famoso buco nella rete da cui sarebbe uscito il pallone. Macché buco, quel gol esisteva solo nella testa dell’arbitro.

Però mi piovvero addosso delle accuse. Brutte, infamanti. Di aver venduto la partita. I dirigenti se la presero con me. L’allenatore non mi metteva in squadra.

Due anni d’inferno, anche se ne ero uscito pulito. Andai a Taranto, ancora in prestito, poi di nuovo Verona, Teramo, Lecco, il Pistoia in serie C. Arrivai a Sanremo nel ’68. Avevo soltanto trent’anni. Ma la caviglia dava di continuo problemi. E non ha mai smesso. Giocai ancora un po’ e infine mi arresi. La mia carriera era al capolinea.

Quel giorno, invece… sembrava aprirsi un orizzonte luminoso. Nazionale militare, nazionale giovanile. Un giorno come tanti, che però poteva cambiarti la vita. Eravamo un po’ preoccupati per tutta quella folla dentro al campo: se succede qualcosa qui… Poi venne la vittoria. Per i tifosi fu come se avessimo vinto il campionato. Entusiasmo incontenibile. Giocatori e presidente portati in trionfo.

Per quel gol… Una palla che era stata rinviata dalla loro difesa. Ero pressato da quattro, cinque giocatori, ma sono riuscito a tirare. Mattrel neppure l’ha visto. È nato così… di puro istinto… non pensi in quegli attimi… non hai il tempo per pensare… Un riflesso condizionato, vedi la palla e ti ci avventi… Mi avventai e venne fuori ‘sto capolavoro…”

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