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Rafa Nadal il dio dell’agonismo: “Per i giovani, la lezione è non rompere la racchetta sull’1-5”

Se Federer è la Grande Bellezza, lui è la Grande Tenacia. Dice di lui l’ex coach di Roger: «Gioca ogni punto come se fosse l’ultimo». Lo ha fatto anche ieri al Masters contro Medvedev

Rafa Nadal il dio dell’agonismo: “Per i giovani, la lezione è non rompere la racchetta sull’1-5”

Quanto stonano i polsini fucsia su quella figura epica che si muove sul campo avvolto dalle luci blu, grugnendo un “vamos” al cielo, come se il tetto della O2 Arena non ci fosse. Rafa Nadal ha appena vinto perché l’Occhio di Falco ha ufficializzato out una palla che lui ha già battezzato esterna e il giudice di linea no. Per cui si scusa un po’, il match point alla Var è così ineducato dalle parti del tennis. Dà una pacca sulla spalla a Daniil Medvedev, e poi comincia un girotondo di grazie: al pubblico e agli dei. Inquadrato dall’alto, ha i capelli che si diradano, una piazza al centro e una riga che attacca troppo alta. E’ sempre più sofferente, doloroso, sudato. Ma è sempre lì a dettare miracoli alla storia, uno dietro l’altro, come l’ultimo a queste Finals affrontate da infortunato: sotto 5-1 al terzo set contro quel cagnaccio di un giovane russo, rimonta e vince al tiebreak.
Dopo, non avesse abbastanza devastato nell’animo l’avversario, va in conferenza stampa e distribuisce umiltà:

“Sono stato superfortunato, mi dispiace per Daniil che ha giocato molto meglio. Partite così ne vinci una su mille”

Il fatto – che è ormai fa categoria a sé in letteratura sportiva – è che Nadal di “partite così” ne avrà vinte un centinaio. Ma tanto pure le statistiche ormai hanno abdicato: 19 titoli del Grande Slam, e un’infinità di altri record che fanno la felicità dei feticisti del genere, sono numeri terreni. Ma Nadal è su un altro pianeta: è riuscito a imporre l’agonismo, quel disperato attaccamento alla vittoria, la forza di volontà, la tenacia, come un valore artistico. Al pari della Grande Bellezza di Federer. La sostanza promossa a forma, alla forza la stessa dignità dello stile. Diluendo in una lunghissima carriera di muscoli in fiamme tutte le definizioni sminuenti: il terraiolo, “l’infortunato che gioca a tennis”, per molti increduli complottisti addirittura “il dopato”.

Ne hanno vivisezionato i tic, gli atteggiamenti, le contorsioni del gesto tecnico atipico, la circonferenza del bicipite mancino, le rotazioni del dritto a uncino. Poi ne hanno scritto il coccodrillo almeno una decina di volte, attendendolo al traguardo per una questione logica più che anagrafica: uno che ha cominciato a vincere a 16 anni, con un tennis così dispendioso e violento, figurarsi come arriva ai 30 anni. Lo stanno ancora aspettando. Anzi, hanno – abbiamo – smesso.

Nadal è diventato un presente ambulante che non vorresti mai declinare al passato. Come Federer che non suda, appunto, di cui è l’altra faccia letteraria. Djokovic (per alcuni il migliore dei tre sul piano dell’efficacia e dei risultati) vince in un buco nero d’ombra. Gli altri due risplendono d’immortalità.

Il sottotesto, quando Nadal rimbambisce il destino così, è che tutto ciò che fa ormai su un campo da tennis possa diventare una lezione. Dispense di vita. Per cui se glielo chiedono, lui risponde a tono: “Non è la rimonta la lezione per i giovani tennisti. Per i giovani la lezione è non rompere la racchetta a terra quando sei sotto 5-1, è non scoraggiarti mai”.

“Nadal non è una persona normale. Gioca tutti i punti come se fossero l’ultimo punto della sua vita”.

E non muore mai. Paul Annacone ha allenato Federer, sa di cosa parla. E se ne è fatta un’idea pure il giovane Medvedev che ad un certo punto della sua vita s’è ritrovato ad avere tre palle break nel secondo game del quinto set di una finale dello US Open, con l’orologio che batteva 3 ore e 57 minuti. Come sia potuta finire quella prima battaglia è scritto in questa spicciola seconda guerriglia:  vince lui, a queste condizioni vince sempre lui.

A New York, quella volta, quei sadici produttori di eventi che sanno essere gli americani, prima di premiarlo lo misero seduto in panchina e trasmisero sul maxischermo il film dei suoi successi. Nadal prese a piangere come solo Federer sapeva, e da allora anche gli ultimi miscredenti si sono arresi all’umanità dell’extraterrestre.

“Si invecchia, ci si commuove più facilmente”

avrebbe poi sorriso, in sala stampa.

Siamo qui a celebrare la vecchiaia assassina di un cannibale saggio. Uno che invece di far pace coi propri limiti, ci ha costruito su una carriera: ha preso lo squilibrio dei suoi colpi da destrorso inventato mancino (dallo zio) e ha forzato il gioco fin quando ha potuto: il diritto dal centro-destra, la palla liftata sul diritto avversario, una falce sugli schemi dell’avversario.

Poi ha cominciato ad allenare la sua stessa indole alla trasformazione del corpo: ha avanzato il game-spot, ha lavorato sulle volée, sul servizio. Ha accorciato e ristretto il campo. S’è preso un pezzo di vita sportiva accessoria semplicemente migliorandosi. Ora non è più solo un muro di grinta e palle rotanti, ora che il bicipite s’è sgonfiato è al centro di un progetto di gioco coerente e organico. Ha una faccia che fa sempre più smorfie, e un fisico in distruzione controllata. Ed è il suo medico, colui che ne ricuce gli strappi da una vita, che mette la parola definitiva a questa storia infinita:

“Io credo che Nadal sia l’agonista ideale, in assoluto, il più grande della storia dello sport. Perché ha una passione per lo sport e per l’agonismo diversa da tutti gli altri: più forte, più decisiva”.

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