Oggi nemmeno i preti fanno più i ritiri spirituali, e gli allenatori non hanno né la quantità e né la qualità delle conoscenze psicologiche e sociali necessarie per questi momenti
In tempi odierni in cui manco i preti fanno più i ritiri spirituali perché sono pochi e hanno altro da pensare; che poi per la maggioranza di essi era come portare l’anima in lavanderia, ebbene il rito purificatorio rimane nei sacerdoti del pallone. Non ci sarebbe alcun bisogno se lo facessero, come dovrebbero, ogni settimana negli spogliatoi o quando ci sono le soste. E sono riunioni che andrebbero programmate sin dall’inizio di stagione che si chiama proprio “ritiro”. Brevi ma costanti, di solito al primo allenamento post-gara, e intense immersioni nello spirito dei singoli e del gruppo sarebbero più che sufficienti.
Ora, gli allenatori oltre ad avere spazi stretti sia mentali (la testa è piena di ogni cosa) che temporali (le tante partite e aspetti annessi), non sono di base preparati perché non hanno né la quantità e né la qualità delle conoscenze psicologiche e sociali per farlo.
I calciatori stessi hanno la psiche compressa e stressata, mancandogli un adeguato respiro intellettivo e relazionale sono inconsapevolmente portati a valutare i fatti da un punto di vista individuale (“ho dato tutto… il ritiro è una punizione inaccettabile..”) così all’aumentare delle tensioni ognuno guarda sempre più al proprio interesse (il conto in banca). Sfugge un po’ a tutti i protagonisti l’autocoscienza che per alzare le possibilità di successo è necessario sacrificare, in nome della squadra, della società e della città che rappresentano, parti del proprio IO (egoismo, esibizionismo, gloria, tornaconto) a favore dello spirito del NOI che è l’unico che può spostare gli equilibri a favore del medesimo, che diventa più vincente, e del gioco del calcio in generale. E la falla nella coscienza non riguarda soltanto chi dà calci al pallone.(psicologo dello sport, collaboratore del centro tecnico di Coverciano)