Intervista al CorSera: “Le società devono pagare per il comportamento dei loro tifosi. Ci vogliono più telecamere. Noi giocatori dovremmo garantire maggiore tranquillità all’arbitro”
Il Corriere della Sera intervista Kevin Prince Boateng. Domenica la Fiorentina sarà a Verona, dopo la chiusura della curva per un turno dopo i cori razzisti contro Balotelli.
“Non mi basta che dopo gli insulti a Balotelli venga impedito l’accesso a una parte di tifosi. Io spero sempre in comportamenti positivi e mi auguro che il pubblico qualcosa abbia imparato e non replichi più certi atteggiamenti”.
Da quando lanciò il pallone verso la curva della Pro Patria, nel 2013, le cose sono solo peggiorate, dice.
“All’epoca giocavamo un’amichevole, ora un comportamento del genere si dovrebbe ripetere se necessario in una gara di campionato. Rispetto ad allora girano ancora più soldi e sempre più bambini ci osservano. Occorrono misure più drastiche”.
Misure che indica senza esitazioni
“La squalifica del campo. Le società devono pagare per il comportamento dei loro tifosi. Oppure, se necessario assegnare la sconfitta a tavolino. E poi negli stadi si dovrebbero installare più telecamere per individuare chi compie certi gesti. In ogni caso noi giocatori dovremmo garantire maggiore tranquillità all’arbitro affinché anche davanti alla pressione del pubblico in certi frangenti abbia la forza di dire “non si gioca più””.
Non basta la campagna “No to racism” in Champions. Non è stato fatto ancora nulla di concreto, contro il razzismo. E allora un’idea di cosa fare ce l’ha lui
“Nel 2020 ci penso io. Sto organizzando una task force mia con eventi, coinvolgendo altri calciatori. Sono stufo, la gente non capisce come si sentono Balotelli, Boateng o Koulibaly quando tornano a casa. Noi siamo soli. Divento pazzo quando sento commenti del tipo “tanto guadagni 5 milioni”, addosso restano cicatrici che non si possono cancellare”.
Quando gli chiedono se l’Italia è un Paese razzista risponde
“Nel quotidiano il fenomeno è nascosto. È più semplice farsi scudo dietro venti persone allo stadio o scrivermi sui social “negro di m…” perché ho sbagliato un gol. Troppo facile offendere dietro un cellulare. Spesso poi le offese sono frutto solo di ignoranza, per questo auspico che vengano introdotte a scuola più ore di educazione civica per combattere ogni forma di discriminazione”.
Boateng racconta che l’incontro che gli ha cambiato la vita è stato quello con Mandela, nel 2010.
“Era attorniato da un’aura di serenità e nonostante avesse passato 27 anni in galera non era nemmeno arrabbiato, insomma non voleva ammazzare tutto il mondo. Chi lo aveva imprigionato non aveva l’intelligenza di capire cosa stava facendo, mi disse”.
Su Ribery:
“Siamo tutti e due pazzi uguali. Quando smetterà, di lui si dirà che è stato una leggenda. Mi piace perché davanti alle critiche non si nasconde. Ha le palle”.
Sull’esperienza al Barcellona
“Nella mia vita ho avuto momenti bui perché non stavo bene fisicamente o avevo la testa calda. Ma ho imparato che quando serve occorre muovere due passi indietro, lavorare e stare muti. Io sono andato a giocare a Las Palmas che nessuno conosceva e ho vissuto una stagione perfetta. semplicemente i blaugrana avevano bisogno di un giocatore esperto con le mie caratteristiche. Far parte della squadra più importante al mondo è stato un sogno. Io sono stato titolare al Camp Nou con il Barcellona, pochi al mondo possono dirlo”.
Dei fuoriclasse con cui ha avuto a che fare, dice, ha sempre cercato di carpire il meglio, almeno un segreto
“Da Ibra la professionalità, da Pirlo la calma, da Ronaldinho la gioia, da Messi di evitare di tirare come un matto in porta. Allegri mi ha insegnato l’importanza di difendere. Klopp è il migliore di tutti: ha carisma, vai in campo e vorresti morire per lui”.
Non cambierebbe nulla degli eccessi vissuti nella sua vita
“mi hanno aiutato a crescere. Stavo male, cercavo la gioia nelle cose materiali e ho sbagliato. All’epoca non ero molto professionale, lo sono diventato troppo tardi”.
Infine, un bilancio della sua carriera fin qui
“Quando finirò sarò felice. Non mi interessa vincere coppe tutti gli anni o essere il campione con cui i ragazzi si mettono in posa per i selfie. Io voglio che la gente si possa ricordare di me dicendo “quel tipo è matto ma è uno giusto. Lo voglio toccare”. Mi piacerebbe che la gente pensasse che ho lasciato qualcosa. Caspita, ho fatto una carriera fantastica”.