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Federer ci interroga sulla sconfitta della bellezza

“Cercherò di dimenticare i due match-point sciupati ma non sarà facile”. Vederlo perdere a volte ci sembra un oltraggio. Nel giorno in cui ha conquistato più punti. E poi ha steccato l’ultima palla. Ma dio, come l’ha steccata bene

Federer ci interroga sulla sconfitta della bellezza

Le sconfitte di Roger ci paiono oltraggi

“Cercherò di dimenticare i due match-point sciupati ma non sarà facile”. È da ieri sera che Roger Federer sta provando a dirci alla sua maniera, senza brutalità, che forse un ventunesimo titolo di Slam non lo vincerà più. Se non riesce a dimenticarsene lui, figurarsi quanto possiamo tormentarci noi della sua chiesa. Con gli -ismi va a finire sempre così. I loro leader – sacerdoti o capi di partito – si fanno una ragione di tradimenti, scismi e Bolognine, digeriscono mutazioni anche fatali prima e meglio dei fedeli. Quelli fragili siamo noi. I fedeli. Il campione perfetto lascia sempre così tanto tennis negli occhi che, quando perde, ci accompagna spesso un senso di ingiustizia. Gianni Clerici su Repubblica ha scritto che avrebbe assegnato un pareggio. Le sconfitte di Roger certe volte ci paiono oltraggi. Figuriamoci nel giorno in cui i parametri statistici sono tutti dalla parte sua. Ha messo a segno più punti. Ha avuto una migliore percentuale con la prima di servizio e con la seconda, la migliore percentuale di punti a rete, più palle break trasformate e più colpi vincenti. Ma ha perso. Sports Illustrated ha scritto: “È il tennis, amico…”. Riccardo Crivelli ha ammesso sulla Gazzetta che Djokovic ha meritato di vincere perché “più incisivo nei punti cruciali”. Paolo Bertolucci sul 4-4 al quinto set in diretta su Sky ha detto: “Questo è uno sport che può mandarti al manicomio”.

I punti chiave

Federico Ferrero, giornalista specializzato di tennis, voce di Eurosport, sul suo profilo twitter ha scritto: “Da voyeur e ammiratore di Federer mi sento di dire che: a) mai ho visto nessuno fare sul campo da tennis quello che fa lui; b) se Federer avesse giocato da Federer i punti chiave di certi match che rammento, a naso direi che avrebbe 5 Slam e 3/4 Master 1000 in più. Eresia?”.

Convinto del punto A sono andato a controllare il punto B. La finale di ieri è stata la ventiduesima partita persa da Federer dopo aver avuto dei match point. È la terza volta che gli capita con Djokovic, tutt’e tre le volte in uno Slam, dopo le semifinali a New York nel 2010 e nel 2011. Nei tornei dello Slam gli era successo anche con Haas al terzo turno di Melbourne 2002, con Safin in semifinale a Melbourne 2005, con Anderson nei quarti a Wimbledon l’anno scorso. Due volte gli era già successo in finale: a Roma nel 2006 contro Nadal e a Indian Wells nel 2018 contro Del Potro. I suoi rivali? Nadal ha perso in carriera 8 partite dopo aver sprecato dei match point, a Djokovic è successo solo tre volte. Ma vuol dire davvero qualcosa?

La bellezza di Federer è insidiosa. Ci fa velo. Nel calcio si parla spesso di vittoria ai punti. È come se fosse il premio della critica al festival di Cannes. Non sappiamo farci bastare i gol. Ma la vittoria ai punti nel tennis esiste già. È ai punti che si vince. Solo che i punti nel tennis non si contano. Si pesano. Il concetto di vittoria ai punti nasce dalla boxe. Diventa necessario quando nessuno dei due va giù. Eppure sono premiati i pugni andati a segno, non l’eleganza con cui sono eseguiti. Quando chiesero a Rocky Mattioli il segreto del suo pugilato da titolo mondiale, l’abruzzese d’Australia rispose: “Lu segreto… lu segreto… lu segreto è tirare li cazzotti”. Siamo più liberi e più credibili nel farci piacere i ballerini Muhammad Ali e Ray Sugar Leonard, quando lasciamo ad altri la libertà di amare i picchiatori alla Roberto Durán, Joe Frazier e Mike Tyson.

Breve discorso sulla bellezza

Amiamo tutti Federer (non tutti per fortuna) per un bisogno di bellezza. Salvo accorgersi che siamo diventati adulti e dovremmo discutere bene su che cos’è la bellezza, senza finire per confondere la classe con lo stile. In una intervista al quotidiano spagnolo El País, l’ex mediano ed ex ct del Brasile Dunga ha detto che ci può essere bellezza e spettacolo anche nella scivolata di un difensore e nella parata di un portiere. Nemmeno nei tuffi e nella ginnastica artistica vince da sola la bellezza, maledizione, noi della chiesa di Roger ora lo sappiamo bene. Sono sport in cui i giudici valutano sì l’esecuzione – e dunque diciamo pure l’eleganza – ma ogni esibizione ha pure un codice di difficoltà legato ai gesti che saranno eseguiti.

Il tennis ci ha già abituato a veder cambiare giudizi sullo stile perché cambia lo spirito del tempo. Gli ace sono stati a lungo un segno di qualità. Quando tanti giovanotti hanno imbracciato le loro racchette come se avessero avuto un porto d’armi, li abbiamo chiamati bombardieri. Dinanzi all’abbondanza di Ivanisevic, il tennis arrivò a discutere della maniera per limitarli. Il serve and volley è stato considerato il massimo della classicità e dell’eleganza in uno sport che ha fatto dell’eleganza un tratto distintivo. Oggi molti ne parlano come di un problema. “Spezzetta il gioco”.

Ieri in tv c’è stata un’esplosione di entusiasmo per uno scambio di 35 tiri. Un tempo 35 tiri erano il biasimo portato su un campo di tennis. Erano la noia. Era il lavoro degli arrotini. Perché erano tiri. Oggi sono colpi. Oggi reggere 35 colpi sparati come li hanno sparati quei due è un segno di qualità quanto il serve and volley giocato nel tennis al ralenty di una volta. Gli ace sono lo spirito del tempo. Sono le clip. Sono i Vine. Sono i tweet. I 35 colpi sono il premio della critica di Cannes. 

L’occasione perduta

È da ieri sera che l’omelia di Roger cerca di convincerci che questo Wimbledon va in archivio come un’occasione perduta. Certamente lui è stato un’occasione perduta per la Svizzera. Dietro Federer e Wawrinka (34 anni, tre titoli Slam) c’è un solo giocatore fra i primi 100 al mondo: il ventisettenne Laaksonen. Bisogna scendere al numero 571 per trovare un Under 21: si chiama Jacob Paul. La Serbia di Djokovic ha invece un diciannovenne, Miomir Kecmanovic, al 66esimo posto al mondo.

Sull’occasione perduta ha una sua teoria Mats Wilander, 55enne, sette titoli di Slam vinti in carriera. L’ha esposta stamattina sulle colonne del quotidiano sportivo francese L’Équipe. Ha scritto che sull’8- 7, 40-15, Federer non avrebbe dovuto cercare l’ace servendo forte al centro. Su quello che era il suo primo match point, avrebbe fatto meglio a servire con uno slice sulla parte destra. Scrive: “È l’abc: servire sul punto debole dell’avversario. Federer è stato un maestro di tattica per tutto il match. Ma Djoko è un genio tattico sui punti importanti”. Per quale motivo? Secondo Wilander perché Federer paga i grandi anni vissuti fra il 2004 e il 2007, nei quali dominava così tanto da non aver dovuto giocare abbastanza punti importanti. In quei 4 anni ha perso 24 partite in tutto. Capello direbbe che giocava un tennis poco allenante. Gli veniva tutto così facile che per Wilander “non si è affinato tatticamente e di fronte a ragazzi come Nadal e Djokovic, maestri della materia, non gioca correttamente i punti importanti”. La tesi è affascinante. A suo modo risolutiva di un tormento. Ma non tiene conto del fatto che nella sua carriera Federer ha anche vinto 21 partite salvando dei match point, anche se mai in una finale: nel 2003 a Cincinnati batté l’australiano Draper dopo avergliene annullati sette. 

Anche Federer suda

In realtà la tesi di un Federer che brillava nel deserto non è proprio salda. Quando batte per la prima volta Sampras, 2001, Pete è sì in calo ma è ancora un giocatore con uno Slam nel suo futuro. Federer aveva avversari che soffriva e da cui perdeva anche negli anni d’oro. Come Nalbandian, o meglio ancora: Hewitt. Federer è più giovane di lui di soli sei mesi. Hewitt era già numero uno mentre lui era ancora in viaggio verso la maturità. Solo oggi sappiamo che Hewitt è stato un bagliore. Un dominatore in transito. Quando batteva Federer per sette volte nei loro primi nove match, pareva un insormontabile. Era un Federer ancora pigrotto che ogni tanto sfasciava racchette, imprecava, andava a rete da scriteriato. Hewitt per questo lo amava. Era l’uomo perfetto contro cui esercitarsi con il passante. “Lleyton mi ha costretto a tirar fuori il meglio di me”, ha detto Roger nel giorno in cui l’australiano si è ritirato. Per batterlo ha dovuto lavorare sull’aggressività e inventarsi un altro tipo di rovescio. Ha dovuto crescere. Fare fatica. Anche Federer suda. Solo così lo ha battuto quindici volte di fila a partire dal 2004. Cahill, che di Hewitt è stato il coach, ha detto: “Hewitt ha il merito di aver fatto di Federer il giocatore che è oggi”. Non è stato tutto sempre e solo un dono del cielo. Non è mai stata solo bellezza. 

La palla steccata

Ha scritto Marco Imarisio stamattina sul Corriere della sera che amiamo Federer per la bellezza e Nadal perché ne è la nemesi, fatta di forza e agonismo. “La colpa di Djokovic è di essere arrivato un attimo dopo. Djokovic non era previsto nella narrazione di questa età d’oro del tennis. Spesso sembra che debba scusarsi per il disturbo”. Siamo programmati per le rivalità. Il triello alla Sergio Leone è una complessità. Presi da Borg e McEnroe, quasi nessuno assegna a Jimmy Connors la centralità che merita: i suoi 8 Slam li ha dovuti conquistare sottraendoli a quei due. Non è togliendo meriti a Djokovic che celebriamo meglio Federer. Se in fondo il dritto del primo match point fosse finito dentro le righe, vi sareste risparmiati tutto questo. Roger sa che deve dimenticare e andare avanti. Deve darsi almeno un’altra finale. Sarebbe paradossale aver chiuso l’ultima della sua carriera con una palla steccata verso il cielo. Ma dio, come l’ha steccata bene.

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