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Perché è impossibile chiamare sport il calcio femminile

Gli sport autenticamente in purezza femminile sono quelli dove non c’è da inseguire nessun modello maschile. Da Wilma Rudolph in poi

Perché è impossibile chiamare sport il calcio femminile

Opporre le ragioni della storia, anche con qualche timida ironia, all’enfasi patriottarda che in questo momento circonda la nazionale delle nostre ragazze, potrebbe apparire come un’esile, quanto inopportuna, rivendicazione sessista proprio nel momento in cui la prateria del pallone, un tempo maschia e incontaminata, assume i nuovi tratti ultracazzuti del gentil sesso. Ma insomma, ci sembra doveroso correre un rischio così grave, se l’obiettivo (alto) è quello di rivendicare con orgoglio le nostre povere vite debosciate di quel tempo antico – erano gli anni ’60/70 – quando, spiaggiati davanti al tv, o, nel migliore dei casi, tifosi attivi da stadio, si veniva considerati dal genere femminile, certamente con buone ragioni, come poveri dementi senza speranza. Allora, e negli anni successivi poco è cambiato, il fruitore medio di calcio, d’alto o basso lignaggio che fosse, non ha mai spiccato il volo nella considerazione delle donne, che semmai ne hanno esplorato psicanaliticamente le pieghe della mente per ritrovare la radice di quel male oscuro. È di questo che parleremo, per arrivare a una conclusione amara: “Perché è impossibile chiamare sport il calcio femminile”.

Le ragioni della storia

Per risalire le ragioni di un’ostilità antica, quella che mosse le donne nell’osservazione del maschio-tifoso di calcio, ostilità che non ha mai cessato di alimentarsi, è giusto mettere il pallone sotto una lente di ingrandimento. E dire subito quel che appariva come una vera e propria incongruenza: come mai lo sport più popolare del mondo occidentale, a cui potevano accedere fasce sociali d’ogni condizione – quindi in linea di principio pienamente “democratico” – era visto dalle donne come una volgarità del pensiero, come un’interruzione delle intelligenze, come il passo finale di una devastazione culturale?

Qui, una doppia condizione, quella puramente sportiva unita all’altra economica, raggiungeva il suo obiettivo primario: la demolizione del calcio. Uno sport, dove la fatica non compariva mai, né era strutturalmente contemplata, che paradossalmente veniva premiato con i guadagni più lauti di tutto il panorama sportivo. Inaccettabile ancor oggi, figuriamoci allora. In tutto questo, la proiezione casalinga di quel debosciato spiaggiato davanti al televisore faceva il resto, nella consapevolezza di doversi tenersi in casa un mezzo fallito che urlava come un ossesso per “ventidue coglioni in calzoncini corti che corrono dietro a un pallone” (la frase classica, ormai consegnata ai libri di storia). Naturalmente, il mondo maschile ha vissuto tutta questa ondata di disprezzo con quel filo di paraculo distacco, e semmai con la paura di un esito contrario, e cioè l’avvicinamento delle donne allo sport. Cosa che è tragicamente avvenuta in questo ultimo tempo.   

Le ragioni dello sport

Sin qui, sinteticamente, le ragioni della storia. Che sono sì importanti, ma forse non decisive al pari di quelle esclusivamente sportive. Che cos’è uno sport, innanzitutto? Uno sport è una disciplina che vive di luce propria, che non ha sesso, né invoca o richiede parallelismi di genere. È una questione semmai molto gender fluid. Per cui nessuno a Roma nel 1960, e parliamo di sessant’anni fa, s’interrogò se la perfezione di Wilma Rudolph che vinse i 100, i 200, e la 4×100, fosse minimamente paragonabile a quella di un maschio, che proprio nell’occasione dei Giochi poteva essere il nostro grande Livio Berruti.

Lei per il mondo era solo Wilma, l’immensa Wilma. Non è cambiato molto ai giorni nostri. Gli sport autenticamente in purezza femminile sono quelli dove non c’è da inseguire nessun modello maschile, dove il maschio, come riferimento possibile, non esiste nemmeno. In cui la poesia violenta di Serena Williams è un racconto dell’anima, dove il precipizio infinito in cui si infila Sofia Goggia elimina il respiro, dove soltanto un inevitabile cognome riporta Tania Cagnotto a un possibile riferimento maschile. E così per tanti, tantissimi altri sport, come ginnastica, nuoto (forse che Mafaldina vi richiama qualche maschio?, ma per favore), pallavolo, ecc.

Sarebbe pretestuoso chiamarlo sport

Poi c’è il calcio femminile. Che sarebbe pretestuoso considerare uno sport. È, per il momento, un interessante passatempo sportivo. Le ragioni sono quelle che abbiamo appena accennato. Qui è ancora tutto un richiamo maschile, partendo dal rifiuto della storia. Da più parti, questa bella nazionale viene agitata come una sorta di rivendicazione al femminile, come se ci fossero conti aperti da regolare. No. Non è questo il terreno. A quel tempo, le donne non vennero escluse a beneficio degli uomini. Furono loro che decisero in totale autonomia di chiamarsi fuori da uno sport che consideravano volgare, e volgari di conseguenza noi fruitori debosciati. Oggi il dislivello è ancora troppo forte, nei tratti, nelle cerimonie, nel gesto tecnico, per evitare il parallelismo, per poter vivere quello sport in purezza come fu per Wilma Rudolph. Non fatene, care ragazze, una piattaforma rivendicativa. Questa volta, almeno questa volta, il maschio spiaggiato davanti al tv non c’entra.

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