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Massimo Bordin, ovvero uno non vale uno

Con la scelta dei pezzi da proporre, i commenti, le pause, faceva pensare, cioè ricordava che il compito del giornalista è far riflettere, far dubitare.

Massimo Bordin, ovvero uno non vale uno

Il nostro mondo era fatto di voci

C’era Ameri, naturalmente Ciotti. C’era Bordin. E uno non vale uno. Perché ci sono maestri e discenti. Nel nostro piccolo, microscopico, irrilevante in un mondo sempre più irrilevante e vano, noi di Radio Shamal ci siamo ispirati, ci ispiriamo, o almeno vorremmo, ai grandi, ai Beppe Viola, ad Arbore e Boncompagni, nell’informazione, si, a Bordin.
A prescindere dalle sue idee, da quel suo essere e proclamarsi radicale, in sostanza liberomercatista e libertario, garantista, sempre, e liberale einaudiano (anche se con una gioventù trotzkjsta). Uomo di libero pensiero, uno degli ultimi tra gli intellettuali di questo paese.
Non si poteva farne a meno, di ispirarvisi, di imitarlo, senza – è vero – grandi risultati. Perché ci vuole maestria nell’essere schierati ma mai faziosi, sobri ma mai moderati, ironici, sarcastici a volte, mai apocalittici, sempre contrari.

No, uno non vale uno

E non è questione di “competenze” ma di spessore umano e culturale. Uno non vale uno, perché ci sono uomini e caporali, per dirla col Principe, oppure, se preferite, uomini e gerarchi, e tra questi i gerarchi minori (il copyright è proprio di Bordin, che nella sua ultima rassegna stampa di “Stampa e regime”, condotta da trent’anni, così etichettava Vito Crimi che manda al macero in queste ore il servizio pubblico, non di stato, di Radio Radicale).
Uno non vale uno nemmeno tra chi ora redige i coccodrilli. Intendiamoci, ce ne sono di assai belli e ispirati, quello di Manconi, ad esempio, un commovente e sincero Macaluso, il bravo Mattia Feltri. Ma, tra gli altri, tolto Il Dubbio e Il Foglio, quanti porgerebbero il microfono al loro nemico, al fascista, al plurindagato? Quanti condivisero la battaglia di Bordin, allora direttore dell’emittente un enorme Lino Jannuzzi, a difesa dell’indifendibile, mentre fuori da quel rifugio impazzavano il giustizialismo e P2-P38-PScalfari?
Uno non vale uno. E nel nostro mondo, dopo aver perso il tratto populista e aristocratico di Vincino, è giunto il momento di accommiatarci dalla voce indispensabile di Bordin. Era Mozart e Sinatra (Manconi preferisce dire Tony Bennett), era un amico, anche se tifava Roma e anche per noi che non crediamo agli amici virtuali di questo mondo sempre più fittizio e fasullo, una presenza quotidiana, una buona abitudine, al mattino col caffè, in auto in quell’oretta di tangenziale mentre ci si recava in tribunale, un luogo che ben conosceva. Era un calmante, pure, quella voce, coi suoi colpi di tosse sempre più frequenti, un calmante, però, non un narcotico. Perché Bordin, con la scelta dei pezzi da proporre, i commenti, le pause, faceva pensare, sembra un’ovvietà affermarlo, affermare che un giornalista debba fare questo, far riflettere, far dubitare, mettere alla prova i propri convincimenti, per avere dei convincimenti. Ma parafrasando Chesterton, in questo tempo le ovvietà sono diventate rivoluzionarie.

 

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