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No, caro Napolista, tra Adani e Allegri sto con Adani (ma Callejon azzera tutto)

È un passo, e dal “risultatismo” si passa al “meritiamo di più”, che è un “meritiamo la vittoria”, un “conta solo vincere”

No, caro Napolista, tra Adani e Allegri sto con Adani (ma Callejon azzera tutto)

“Quando ero giovane credevo in tre cose. Il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite” (Sergio Leone)

Mi dispiace, non sono d’accordo con Il Napolista. Tra Adani e Allegri, sto a vita col primo. E non per mero antijuventinismo. Al netto dell’etica (scarsetta) di chi allontanava la palla a Lavezzi per impedirgli di battere il fallo laterale, non c’è mai stata dinamite nel gioco di Allegri. Naturalmente da tifoso della Juve non arriverei mai a contestare un tecnico che mi regala l’ottavo scudetto consecutivo. Ma è lecito chiedere, come pure moltissimi juventini chiedono, se con tanti e tali top player non sia ipotizzabile e praticabile un altro gioco. Appunto, più emozionante, meno noioso.

Adani, nel post partita di Inter-Juventus, non fa altro che esprimere una perplessità, la medesima espressa da Capello un po’ di settimane fa sempre nel salotto di Sky. Ne riceve un tipico “lei non sa chi sono io” e, a meno di non voler trasporre tutto dentro le meschine, surreali diatribe di Napoli, che costringono a polarizzazioni che eviteremmo con piacere, e a meno di non voler apparire in questa contesa di poco sempre e comunque proni al mero potere dei tituli, al blasone, per mero spirito di contrapposizione kolaroviana (ma non einaudiana), non possiamo che evidenziare la cafonaggine e l’isteria di uno zittire l’interlocutore, che non ci pare essere nemmeno l’ultimo fesso. Peraltro, in tempi di piattaforma Rousseau, pure citata su questa testata nelle scorse ore per imbastire un supporto teorico al tecnico juventino, in tempi dunque di movimentismi di governo esaltanti le incompetenze e premianti l’ignoranza, il più in linea con l’andazzo generale appare essere il buon Max quando accusa il giornalista di… leggere libri, non prima di avergli ricordato di non aver vinto niente (e certo, Max, Adani fa l’opinionista, non l’allenatore, se si trascura la trascurabile parentesi al Vicenza come secondo).

Leggere libri. Un misfatto. Un delitto. Naturalmente abbiamo un po’ decontestualizzato: Max, ci si dirà, voleva opporre certo al teorico, al commentatore astratto la sua idea di gioco semplice, pratico, lontana dagli arzigogoli, dall’accademia. E però, nell’eludere il quesito che tormenta non solo Lele, il suo tacciar costui, addirittura, di leggere, raccoglie un po’ una vulgata che vuole l’idea del calcio e il suo racconto lontani dal libresco, dalla letteratura. È un’idea da mediocri, figlia dei tempi. Cui non fa da temperamento o controbilanciamento alcun material culture, per intenderci quella propria di tanti grandi uomini di calcio del passato privi di elevata istruzione, uomini di campo a cui però mai sarebbe passato per l’anticamera del cervello di dire, che so, a Brera che leggeva troppo, che era troppo colto, che non poteva esercitare alcuna critica perché non aveva allenato né vinto un piffero. Un amico, del resto, mi raccontava di aver lavorato in grandi aziende in Padania, negli anni ’80, dove incontrava top manager che si vantavano di non aver mai letto un libro: dunque, nulla di nuovo sotto al cielo.

Di nuovo (ma neppure tanto) c’è questa reviviscenza di una insopportabile contrapposizione, quella tra cultura della vittoria e bel gioco, e qui io spero che chi brandisca la prima si renda conto tra una pausa e l’altra della cantilena che è dicotomia che sopravvive solo da noi, provincialotta, è vero, che in Inghilterra, per dire di un posto dove si fa sul serio, non esiste. Che è un passo, e dal “risultatismo” si passa al “meritiamo di più”, che è un “meritiamo la vittoria”, un “conta solo vincere”. Che oggi sostituisce tristemente quell'”al di là del risultato” che era, quello si, davvero comunitario e identitario, espressione di un sentire che non scavava solchi tra tifosi e squadra, esigendo i primi solo di veder in campo dei guerrieri e, si, uno spettacolo, per potersi emozionare, ancora.

Delle critiche mosse a un mio recente sfogo/provocazione facebook pubblicato su questo sito, tra insulti barocchi e ingiurie becere, meritava di esser preso sul serio – come facciamo – l’atteggiamento di chi sostiene che non è questione di scudetto o di coppe quanto di emozioni che il Napoli ancelottiano non saprebbe comunicare. Naturalmente, se questo Napoli, da gennaio in poi, è stato deludente dal punto di vista del gioco, prima che dei risultati (l’uscita da una competizione forse alla sua portata, come l’EL, più che un ottimo secondo posto in campionato), è pur vero che nella prima parte del campionato e soprattutto in CL si è visto invece altro. Non si può dire siano dunque mancate le emozioni. Per dire: Carlo non è Max e resta pur sempre, sia pure nel suo antidogmatismo, un ex sacchiano, un fautore di un gioco propositivo.

L’uomo di Reggiolo, in occasione di Napoli-Liverpool fece riferimento ad uno spettacolo che deve emozionare innanzitutto lui, uomo che di questo e solo di questo vive. Quelle parole non le dimentichiamo ma soprattutto non dimentichiamo le emozioni che abbiamo vissuto noi in quel girone di Champions. È legittimo perciò attendersi da questo tecnico ovunque vincente altro da quanto offertoci da ultimo – tre mesi a questa parte – da un team che ha ereditato e che ha concluso, probabilmente ad Anfield, il suo ciclo.

A trent’anni dalla scomparsa di Sergio Leone, ci viene in mente una sua riflessione sul cinema che

“deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole”

Vale anche per il calcio? Si, vale anche per il calcio.

Qui lo spettacolo può esser rinvenuto nell’estetica guardiolana, nell’eresia sacchiano/sarriana, ma anche nel gagliardo Ajax dei nipotini di Crujff (uno che disprezzava l’Italia per il poco coraggio non aspettandosi la rivoluzione sacchiana), privo di top players, e nel Tottenham, che tanto fa parlare oggi, senza aver vinto nulla (ma vale la pena di ricordare che altri che vinsero anche solo pochi anni fa, a spese della squadra di quel fantastico allievo di Marcelo Bielsa che è Pochettino, sono subito caduti nel dimenticatoio). Volendo procedere a ritroso, qui a Napoli la pretesa sarriana, così simile a quella di un grande regista coi suoi attori, ha un suo precedente, impresso nella memoria di tanti tifosi meno giovani, nell’originale avventura di metà anni ’70, in panchina Luis Vinicio. Ma naturalmente c’è anche una spettacolarità che viene da un calcio più epico, della sofferenza, del conflitto all’ultimo sangue, non siamo così accecati da un presunto pensiero unico calcistico per negarlo e riteniamo da sempre che lo sport migliore sia sempre drammatizzazione della nostra lotta con la morte.

A Napoli, il sarrismo ha coniugato due esigenze, perché accanto al bel gioco c’era l’idea che facendo interiorizzare dei movimenti, considerando la squadra come un collettivo/macchina, si sarebbero ottenuti risultati anche senza grandissimi giocatori che il Napoli non poteva né può permettersi. Al di là dell’effetto identitario del tutto (nel senso della riconoscibilità, del tratto caratteristico, della specificità di una lingua), c’era un’umiltà in tutto ciò, come ve ne era per altri versi in Mazzarri, nella sua idea di tattica – opposta a quella del bel gioco – basata su difesa e contropiede. Con Sarri però si tracciava un solco profondo con quella preistoria, grazie al gusto per la costruzione geometrica come risposta all’individualismo, allo studio, al lavoro incessante, ad un perfezionismo gassmaniano. Ancelotti è un liberale, se si vuole un libertario, ha altre idee ed è giusto che le imponga o ci provi; diversamente, chiedere che imiti chi lo ha preceduto è demenziale. Gli si deve concedere tempo, si deve essere pazienti, accantonare la storica disputa col pappone, cui ogni discorrere di delusione e/o presunto (assai presunto) fallimento torna funzionale. Attendere. È un anno di transizione, in cui qualcosa di più si sarebbe certo potuta fare, ma può andar bene anche così. Per ora.

Il Napoli post sarriano – non poteva essere altrimenti – è un Napoli post certezze, un Napoli che cerca risposte. Per trovarle bisogna andare sempre oltre sé stessi (farebbe bene anche alla Juve, il che porterebbe, va senza dire, benefici all’intero calcio italiano). Quale uomo migliore di Carlo Ancelotti può guidarci? Ma è necessario tempo, questa è la verità, anche se la verità spesso è irritante (non offensiva, non offende nessuno la verità, ma la si deve saper porgere, come un Gay Telese insegna). Quando Sergio Leone si stancò dei western all’italiana, appese il cinturone al chiodo – rubo l’espressione al giornalista Michele Anselmi – e riprese il vecchio monumentale progetto di “C’era una volta in America”. Tra problemi finanziari di ogni tipo, girò qualcosa come 350 mila metri di pellicola in 30 settimane di riprese, realizzando il capolavoro del suo cinema. Ci vuole tempo. E dedizione. E collaborazione. Di tutti. Se tutto ciò ci sarà, potremmo avere – non è detto sia così, nulla è scontato – il nostro capolavoro.

P.S. A poche ore dalla stesura dell’articolo, guardo in tv le immagini della contestazione a Callejon (con lo spagnolo che volta le spalle all’ignobile gesto, senza cambiare faccia e sguardo, entrando anche lui, come un anti eroe hidalgo, nel mondo di Leone). Uno spartiacque. Ho la tentazione di cestinare il mediocre articoletto. A Napoli si sta diffondendo qualcosa di davvero brutto, non è più la critica all’imprenditore, al mercato, i risultati non conseguiti, il gioco, il Vomero, la Filmauro, i presunti radical chic, no. E’ la guerra di un pezzetto indecente di città a un imprenditore che si traduce in attentato al tifo vero, all’amore per la maglia, inequivocabilmente, senza possibilità di fraintendimenti simbolici, mi spiace. Vorrei fare appello a ciò che resta. Forse è l’ora di far saltare in aria una volta per tutte l’orrido “meritiamo di più”. Non meritate niente. Come diceva Mao, citato in “Giù la testa”, “la rivoluzione non è un pranzo di gala”. Bene, a prescindere da chi sia davvero il rivoluzionario in questo contesto (io ho il sospetto che non si trovi in curva), qui la “rivoluzione”, per così dire, è diventata una barzelletta. Il peone interpretato da Rod Steiger nella pellicola di Leone è lontano, e anche il lazzaro delle Quattro Giornate. Resta l’infamia. La vergogna. Per poco ancora. Per poco ancora.

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