ilNapolista

Sarri e la sera di Madrid, così ho definitivamente smesso di tifare Juventus

Un ex tifoso bianconero racconta il suo progressivo raffreddamento. Fino ai due eventi chiave: il Napoli di Sarri l’epilogo indecoroso di Madrid

Sarri e la sera di Madrid, così ho definitivamente smesso di tifare Juventus
Felix Magath

Magath

Me la ricordo bene quella partita ad Atene, ricordi di bambino, la grande Juve dei giocatori mundiàl, cui si aggiungevano “le Roi” Michel Platini e “il bello di notte” Zibì Boniek, sfidava la vittima sacrificale Amburgo. Tutto sembrava scritto. O così sembrava!

Il pomeriggio lo passai a sorvegliare mia zia che mi stava cucendo una bandiera bianconera, non la lasciai un momento per paura che venisse distratta da altre faccende e dalle amiche. Poi mi misi alla ricerca di una mazza da usare come asta per la bandiera. Era il tempo quello in cui le donne lasciavano le scope fuori dalla porta. Ne presi in prestito una, o almeno così credetti.

La partita finì diversamente da come sembrava scritta. Magath spezzò il sogno di tanti tifosi juventini in Italia e non solo. E io che avevo dei parenti emigrati in Germania mi sentivo sconfitto doppiamente.

Dopo la partita, ci furono sfilate e manifesti funebri con sfottò per la sconfitta. Mi sentii ferito. Quella volta mi accorsi che ero diventato un tifoso juventino e quella sconfitta mi legò sentimentalmente ai colori bianconeri per molti anni a venire.

Ero orgoglioso di essere juventino

Come ogni bambino raccoglievo le figurine dei calciatori e quelli della Juventus erano quelli che valevano di più nello scambio. Ero sempre più orgoglioso di essere juventino. Tanti i miei amici che tifavano bianconero, poi c’erano interisti e milanisti, e come mosche bianche c’era qualche romanista o napoletano. Non capivo che senso avesse tifare per squadre che non vincevano mai, che non vedevi in televisione durante il mercoledì in Europa, che non avevano giocatori in nazionale e le cui figurine non valevano niente.

L’estate l’orgoglio di essere juventino cresceva insieme al caldo. Gli emigrati tornavano al paese per le vacanze o la festa patronale e con i coetanei si passavano pomeriggi a giocare partite infinite con il supersantos e il portiere volante. Si ascoltava quelli del “nord”, con le magliette della Juve, Inter o Milan, che raccontavano storie e aneddoti, quasi sempre solo per darsi un tono, legati a queste squadre. I campi di asfalto e in polvere si trasformavano in San Siro o Delle Alpi.

Il Nord brillante e vincente e il Sud sconfitto

I meridionali del nord trasmisero la juventinità (vale lo stesso per Milan e Inter) ai parenti rimasti “giù”. Era l’icona più semplice da trasferire, l’immagine di un mondo ricco e prospero che faceva da contraltare a un mondo di contadini e ignoranti.

Il calcio era la metafora generativa perfetta, che trasmetteva l’idea di un nord vincente e brillante e di un sud sconfitto e condannato alla sottomissione. La stessa usata, successivamente, dal presidente del Milan per trasmettere l’immagine di un uomo vincente.

Tranne qualche incidente di percorso, vedi il Verona di Galdersi, la Roma di Falcao o la Sampdoria di Vialli e Mancini, la vittoria del campionato era una corsa a tre.

Prima arrivò Maradona

Tranne Maradona! Il Napoli di Maradona non mi parve un incidente ma un dono, così come la Ma. Gi.Ca., Maradona. Giordano e Careca. Vedere in tv lo spettacolo dei tifosi al San Paolo e per le strade di Napoli mi diede la sensazione che stava avvenendo qualcosa di speciale, di miracoloso.

Quel giorno, quando il Napoli vinse lo scudetto, Lenin il giornalaio sfilò da solo per le strade del mio paese con asinello bardato di azzurro fermandosi davanti ai bar a sfottere i tifosi delle altre squadre. In quello sfottò non c’era rabbia ma solo tanta allegria.

La fede ortodossa nella Juventus, però, dura fino al tempo di calciopoli, e le lacrime di Ronaldo ebbero un senso. Barcolla quando l’ultimo capitano e bandiera, Del Piero, è trattato come una pezza vecchia. Il mio essere tifoso si trasforma in semplice simpatia. Era in atto una disconnessione sentimentale verso la Juve ma soprattutto verso il calcio.

E poi Sarri

Una disconnessione che dura fino all’arrivo di Sarri e del sarrismo al Napoli. Giocate veloci, giocatori sconosciuti al grande pubblico, dichiarazioni mai mediate e spesso poco politicamente corrette, un popolo e una città che spingono, si emozionano e fanno emozionare.

La passione per il calcio stava rinascendo ma l’essere juventino non poteva scomparire completamente. Alcuni grumi sopravvivono fino alla partita ultima tra Juve e Real Madrid.

La sera di Madrid

Ma poi arrivano le dichiarazioni di Buffon e della dirigenza che indicano l’arbitro e il sistema come fattori della sconfitta. -Non può essere vero! – penso – Ora l’arbitro non è più l’alibi dei perdenti? – Che epilogo indecoroso!

L’elaborazione del lutto era completa. Avevo smesso di essere juventino, non aveva più senso esserlo. Non era più la Juve che avevo imparato ad amare. La Juve era ormai lontana da me per distanza e sentimento.

Che avevo da spartire con la Juve? Ormai niente più. Il senso di appartenenza e di prossimità mi portava da tutt’altra parte, verso il Vesuvio, dove una intera città spinge la sua squadra, dove ogni domenica i tifosi sono costretti a sentire gli sfottò razzisti, spesso cantati dai loro stessi conterranei.

Ma non si può cambiare squadra di calcio! E perché non si può?

Perché rimanere ingabbiati in un sentimento che non si prova più? Provare amore verso la bellezza del calcio non significa essere prigionieri di un tabù.

Abbattendo questo tabù ho ritrovato l’amore per il calcio e la bellezza della libertà di essere tifoso. Ho messo in discussione una scelta infantile, quella malattia giovanile. Ho annullato quel “contratto con il diavolo”, riprendendomi la mia identità e il mio sentimento e ridando indietro l’illusoria suggestione di essere sempre dalla parte dei vincenti.

blogger ed esperto di sistemi culturali lucano

ilnapolista © riproduzione riservata