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La forza tranquilla di Carlo Ancelotti (scritto da un milanista)

Sacchi lo volle a Milano nonostante tutti dicessero che fosse rotto. Tornò da allenatore e si prese la rivincita dopo la tremenda notte di Istanbul

La forza tranquilla di Carlo Ancelotti (scritto da un milanista)

Tutto comincia il 1°maggio

Questa storia inizia trent’anni fa, una domenica di maggio. A Napoli, proprio a Napoli.

Sì, quella domenica di maggio. 1° maggio 1988.

Di quel Milan che dal San Paolo spicca il volo per conquistare il mondo del calcio, un volo ventennale che di fatto si concluderà davvero con la fine della sua lunghissima guida tecnica al Milano, Carlo Ancelotti è forse il marchio più profondo. La “forza tranquilla”, per ricordare uno straordinario slogan elettorale che fu di Francois Mitterrand che ha segnato la parte migliore del temperamento della più grande squadra di calcio di tutti i tempi.

Già. Quando Silvio Berlusconi inventa la fine dei salotti buoni del calcio, e archivia i trionfi in bianconero del Milan per scrivere un futuro a colori, affida le chiavi di casa ad Arrigo Sacchi. Tra i primi nomi che Arrigo fa piovere sulla scrivania del Cavaliere c’è quello di Carlo Ancelotti.

Era rotto

Era un altro tempo, quel tempo, e a ventotto anni un centrocampista – per di più dotato dello straordinario appetito che deve stare scritto nel dna di chi è nato e cresciuto in Emilia – la parte migliore di sé l’aveva già data. Non solo era vecchio, era rotto: aveva le ginocchia sfasciate, negli anni in cui non c’erano i laser e le rieducazioni americane. Insomma, per tutti Carletto era un bidone fatto e finito, ma Arrigo non volle sentire ragioni, non volle ascoltare le perplessità dell’ambiente e dei critici, non credette di dover mai prendere sul serio i sorrisi di sufficienza di tanti soloni che guardavano il vate di Fusignano come uno destinato a non mangiare il panettone, mentre Silvio si sarebbe dovuto rassegnare a tornare da Liedholm col cappello in mano e tante scuse.

Così arrivò Carletto, quello che ormai era finito, e quella vittoria del Primo Maggio è il sigillo della ragione folle di Arrigo e della forza tranquilla di Carletto. Ti danno per morto, per finito, per sconfitto? Tu sorridi, versati un bicchiere di rosso e taglia una fetta di salame, che si ragiona meglio a partita finita, stagione finita, a stomaco pieno.

Doveva giocare Evani

Non è un caso se, proprio nella seconda partita che scrive senza dubbio la storia del mito rossonero, un anno dopo, una sera di aprile a San Siro, Carlo ha un ruolo da protagonista assoluto. Milan-Real Madrid, 5 a 0. Non doveva giocare lui, in realtà, doveva giocare Alberigo Evani.

“Ma in allenamento un ragazzo della primavera, Albertini, entra duro e gli rompe una gamba. E allora io decido di sostituirlo con una persona speciale, il più generoso, il più serio, il più umile di tutti, Ancelotti, anche se non aveva nessuna delle caratteristiche tecniche e tattiche di Evani”. Primo gol memorabile, partita da leader sornione, la forza tranquilla di chi non avrebbe dovuto giocare. Del resto, lo davano finito due anni prima, quando di anni ne aveva 28: sai lo sfizio e la voglia di parmigiano e lambrusco che ti viene, a salire sul tetto del mondo con le chiavi in tasca, quando di anni ne hai due in più?

L’ultima partita

L’ultimo Carletto con gli scarpini che dobbiamo ritagliare, proprio per essere essenziali, è proprio l’ultimo che si mise la maglietta. Ultima partita a San Siro, è il 17 maggio del 1992. Sta per iniziare la drammatica estate delle stragi di mafia, ma ancora nessuno lo sa. Sta per finire un campionato dominato in maniera soffocante dal Milano di Fabio Capello. Una volta ogni tanto è bello chiudere una stagione contro il Verona senza spazio per le sorprese. La sorpresa la fa Carletto. È acciaccato e rischia di non poter giocare. A 25 minuti dalla fine Capello lo butta dentro al posto di Gullit. E Carletto saluta così, serenamente, facendo due gol in due minuti. “Facciamoci un bel pianto corale”, dice alla fine, con gli occhi che brillano in mezzo a parole come gratitudine, umiltà, fortuna, sacrificio. Roba che oggi, per sentirle in tivù, puoi solo sperare di incrociare Papa Francesco: con calciatori e politici non corri proprio il rischio.

Il ritorno, nove anni dopo

Passano gli anni ma nove sono lunghi. È il tempo che ci mette a tornare a casa, nella sua San Siro. Ci torna da perdente di successo. Ha buttato via uno scudetto da allenatore della Juve. Si è intestardito ad aspettare il convalescente Del Piero. Non ha le palle, insomma. I milanisti lo abbracciano col calore che si deve al fratello che torna dopo anni di emigrazione, ma storciamo la bocca appena poco solo perché veniamo da anni strani, di sperimentazioni fantasiose come i nomi di Oscar Washington Tabarez e Fatih Terim, intervallate da sporadici successi che sanno di canto del Cigno, come fu quello del Milan di Zaccheroni.

Gli avanzi dell’Inter

Quando torna Carletto la squadra si riempie di avanzi dell’Inter – due promesse già tradite, come Clarence Seedorf e Andrea Pirlo -, e di vecchie glorie date per certo sul viale del tramonto, come Cafù. Ancelotti lo sa che non sempre ciò che è finito lo è davvero. Lo sa meglio di tutti. Sorride, confabula con i vecchi amici, con Paolo Maldini e Billy Costacurta, e con i nuovi arrivati. Con uno ha un rapporto speciale. Un rapporto diverso da quello con tutti gli altri. “È una cosa che forse un allenatore non dovrebbe fare e non dovrebbe dire, ma con Rino è una cosa diversa, un rapporto diverso da quello che ho avuto con gli altri calciatori”. Una predilezione reciproca maturata a suon di schiaffoni presi da Carletto: che quando Gattuso esulta, si sa, per la faccia dell’allenatore sono sempre guai, e se ne ricorda ancora Marcello Lippi, preso a sberloni da Rino per tutto il mondiale di Germania. Immaginatevi un allenatore che racconta oggi, in un’intervista, di passare il tempo a sfottere una colonna della sua squadra perché ha i piedi di legno. Capitava, sempre a Carletto, sempre a Rino.

“Mister, se avevo pure i piedi buoni non sapevamo più dove mettere le coppe, va bene così”. Intanto batti in finale di Champions la Juventus a Manchester, schierando dal primo minuto Maldini e Billy che di finali ne hanno giocate diverse con te, e poi vediamo.

La notte di Istanbul

I cicli però finiscono. Tutto finisce, lo ha detto anche Sarri, avviandosi verso Capodichino. Lo sa anche Ancelotti, quello che era dato per finito prima ancora di cominciare. La notte di Istanbul avrebbe ammazzato più o meno chiunque. Stava uscendo la partita perfetta, 3 a 0 a fine primo tempo, con un gol del suo amico Paolo, una doppietta di un altro che era finito per tutti, il suo pupillo Crespo, e un calcio tanto bello da fare male. La partita perfetta diventa un incubo, mi perdonerete se mi affido alla vostra memoria senza torturare ancora una volta la mia.

Gattuso racconta che pensò per la prima volta di andarsene, forse addirittura di smettere. Paolo Maldini avrebbe compiuto 37 anni poche settimane dopo. I maligni sorridono: un perdente di successo è per sempre. “Se la rigiochiamo altre 100 volte, la vinciamo 100 volte noi”, pensa Carletto. Perché eravamo più forti, più forti di tutti, Liverpool ampiamente compreso. Ah, se potessimo rigiocarla.

La rivincita

La forza tranquilla è quella di chi può vivere senza avere mai la rivincita, perché sa che potrebbe non arrivare mai. Ma qualche volta, ai più fortunati, ai più pazienti, ai più umili, l’occasione è data. Milan Liverpool è la finale di due anni dopo, questa volta ad Atene, i comandanti sono gli stessi: Carletto di qua, Rafa Benitez dall’altro lato. Due futuri allenatori del Napoli, e mi dicono che qualcuno, sotto il Vesuvio, si lamenta pure di chi glieli ha portati. Quella volta vince il migliore, vince il Milan. L’ultimo Milan davvero vincente che chiuderà il cerchio della Coppa Intercontinentale pochi mesi dopo, e chiuderà davvero il suo lungo ciclo. Sono passati vent’anni da quel maggio del 1988, e lo vedete anche voi, il mastice più profondo, la colla dell’anima di questa storia ha il nome di Carlo Ancelotti.

Sarà bello venire al San Paolo

E adesso? Adesso, già. Carlo Ancelotti ha preso la strada di Napoli. No, non la strada di casa, casa è a Milano e su questo – non vogliatemene – non sono pronto a transigere.

Però sarà bello venire al San Paolo. Sarà più bello del solito aspettare il Napoli a Milano. Una partita speciale, che ha sempre il sapore dell’infanzia per un figlio dei tardi anni Settanta. Adesso avrà anche il profumo della gioventù che fu, con Rino e Carletto a calpestare il Meazza. Prima e dopo saranno abbracci. E speriamo, come ai vecchi tempi, che Rino esultante possa dare due schiaffoni al Maestro. E se invece sarà Carletto a darceli, pazienza. Con lui saremo in debito sempre: perché ci ha insegnato che per vincere tutto, più degli schemi, più delle ossessioni ripetitive di questo calcio di idioti, servono fenomeni che sanno il piacere del vino rosso, del gnocco fritto, del dovere di adattarsi alla vita, alle partite che cambiano in corsa e alle città. Che conoscono il segreto della forza tranquilla.

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