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A due anni sapevo indicare e nominare tutti i giocatori del Napoli

Figlio di un padre “malato” del Napoli e di una madre completamente disinteressata. La mia terza parola, dopo mamma e papà, fu Bettoni senza erre

A due anni sapevo indicare e nominare tutti i giocatori del Napoli

Un portafortuna mancato

Sono nato di sabato e mio padre fu contento che il giorno dopo c’era la sosta di campionato. “La Serie A si è fermata per onorare la nascita di mio figlio”, pensò con un sorriso. Tralasciò il fatto che son trent’anni che la seconda domenica di ottobre il campionato si ferma per la Nazionale. La prima partita del Napoli che mi vide al mondo fu Napoli-Ascoli 1 a 0, rete al decimo dello sfortunatissimo Dirceu. Mio padre mi battezzò come il nuovo portafortuna del Napoli e vide in me un auspicio per un grandissimo campionato. La domenica dopo perdemmo 5 a 1 a Roma con la squadra campione d’Italia e mio padre disse che anche per quell’anno avremmo dovuto pensare alla salvezza.

Durante la mia prima estate arrivò Diego e tutto sembrò diverso. Mio padre il giorno che Maradona disse: “Ciao amici napolitani” e buttò il pallone tra gli spalti, era allo stadio. Io poppavo al Vomero dal seno di mia madre cui di Maradona non glien’è mai fregato niente. La terza parola che riuscii a dire dopo le canoniche mamma e papà fu un insicuro “Bettoni”, che voleva essere il nome del centravanti del Napoli Daniel Bertoni. Quando mio padre riuscì a farmelo dire era raggiante. Bettoni senza R, fino a dieci anni non sono riuscito a pronunciare quella lettera, che per uno che si chiama Corrado è devastante. E il Napoli di quegli anni era pieno di R… Garella, Bruscolotti, Carannante… Maradona… Careca… Carnevale… Giordano…. Che venivano puntualmente storpiati dal mio linguaggio spaesato.

Anni d’oro

A due anni sapevo indicare e nominare tutti i giocatori del Napoli presenti sul poster che troneggiava sul mio letto. Di fronte il poster era quello di Diego. La prima partita che mi vide allo stadio fu speciale: la finale di andata della Coppa Uefa, Napoli -Stoccarda. Avevo cinque anni e mezzo. Al gol dell’emigrante infame mio padre mi fece cambiare posizione e mi prese sulle spalle. Le mie mani gli tiravano i capelli ma ero più alto di tutti e dominavo il San Paolo.

Vidi il rigore che Diego non sbagliò, e vidi quel magnifico gol di Antonio, in mezzo ad una gabbia di avversari, mise in rete. Due a uno. Mio padre nell’esultanza mi scaraventò a terra e abbracciò la parte di Napoli che era convenuta con lui quella sera. Io venivo abbracciato e baciato da gente che non vidi mai né prima né dopo. Era gioia di popolo.

Il ritorno in Germania

La finale di ritorno era a Stoccarda. Mio padre rimase combattuto fino all’ultimo se andare. Lo convinse mia madre precludendogli il ritorno a casa se fosse partito. Guardammo la partita in tv. Io ero imbellettato in sciarpa, maglietta, cappellino e bandiera del Napoli. Tutta la partita cosi. Mio padre e due pacchetti di MS mild dure. Diciassette maggio dell’89. C’era ancora il muro. Careca scese in campo imbottito di antibiotici. Ma fece un assiste un gol. Il primo, per l’uno a zero di Alemao. Poi pareggiò Klinsmann. Poi la coppia d’oro decise di mettere a posto la situazione. Si scambiarono tre volte la palla, tiro io, tiri tu. Alla fine tirò Careca. E segnò.

Diego ebbe il tempo di pennellare un assist per Ciruzzo Ferrara manco vent’anni. Un pallone che chiedeva solo di essere messo in porta. E Ciruzzo disse si. Tre a uno. È la Coppa. E mio padre mi strinse cosi forte da farmi mancare il respiro, e il Vomero era una collina tutta azzurra che si confondeva col colore del mare. Luci, mortaretti, clacson. Una Piedigrotta infinita. Come e più che per lo scudetto. Felicità improvvisa e incredibile. Ultima. Perché il bello della felicità a Napoli è che si crede che sia sempre l’ultima, perciò è una felicità sfogata, dirompente, fino all’ultima goccia di sudore, fino all’ultimo fiato. Felicità infinita perchè ultima.

La fine del sogno

Ricordo che le sere che non riuscivo a dormire mi sforzavo di pensare che dormissi in una camerata con i giocatori del Napoli. Tutti insieme. Ricordo che avevo Francini sopra, nel letto a castello, e Corradini in quello a fianco. Al mattino mister Ranieri ci svegliava. Avevo dieci anni quando Antonio andò via. Non si sentiva più coccolato. Andò a deliziare i giapponesi. Disse di essere il terzo miglior giocatore del Napoli, il primo era Maradona e il secondo ancora Maradona. Disse che a Napoli non meritavano né una piccola squadra né una grande squadra, semplicemente una Nazionale. Andò via senza far rumore, come i tacchetti sull’erba. Il giorno che Careca non fu più il numero nove, io mi accorsi di essere cresciuto. Mi resi conto all’improvviso che gente come Maradona, Careca, Giordano non sarebbero tornati più, che era finito un tempo. Un meraviglioso tempo.

Avevo cominciato a giocare a calcio con la speranza di emularlo. Il talento nascosto nel mio piede sinistro rimase inespresso. Mi sorpresero i miei vent’anni con la consapevolezza che non sarei mai diventato un calciatore, e che il Napoli era fallito. A Maradona e Careca si erano sostituiti Montezine e Savoldi junior. I campi di C1 vennero poco dopo. Ancora oggi, le notti che non riesco a prendere sonno, mi immagino con una maglietta azzurra addosso, un nome da clown a segnare tutti gli assist che Diego fa per me.

 

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