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Francesco Patierno riporta a Napoli “Pater familias”: «È un pugno nello stomaco»

IL 14 marzo sarà all’Hart. «Vuoi fare un film contro la violenza? Allora fai vedere quella vera e stai sicuro che non piacerà a nessuno».

Francesco Patierno riporta a Napoli “Pater familias”: «È un pugno nello stomaco»

Al cinema Hart riprende Hart Original, rassegna di film in lingua originale con sottotitoli in italiano: inglese, francese, tedesco, spagnolo e, quest’anno, anche napoletano. Per la nuova sezione dedicata alla nostra città, il 14 marzo, alle 21, sarà proiettato Pater Familias, di Francesco Patierno, presentato nel 2003 nella sezione Panorama Speciale del Festival di Berlino.

Attualissimo, anche se risalente a quindici anni fa, il film racconta la storia di Matteo, che, trentenne, torna a Giugliano dopo dieci anni di carcere perché il padre sta male. La sua è una passeggiata malinconica nei vicoli del quartiere, un ritorno alla memoria dell’adolescenza, agli amici persi. Matteo si rende conto che il carcere lo ha forse salvato da una vita peggiore. Dell’attualità della pellicola abbiamo discusso con il regista, fresco vincitore di un Nastro d’Argento – sezione docufilm – con il suo Diva! ispirato all’autobiografia di Valentina Cortese.

Francesco Patierno Pater Familias

«È un’iniziativa di Maria Luisa Firpo, che cura la rassegna, con cui si sta stabilendo un rapporto di reciproca stima, fiducia e consuetudine: ‘Napoli 44’ e ‘Diva!’ sono stati proiettati proprio all’Hart – ci racconta – Sono ben contento che a distanza di tanti anni venga proiettato Pater Familias. L’ho rivisto da spettatore, molto tempo dopo, e mi sono reso conto di quanto non sia assolutamente invecchiato».

Un tema attualissimo

All’epoca lei è stato un pioniere nel trattare questo tema. Ha avuto anche difficoltà a distribuirlo. Oggi pensa che sarebbe diverso?

«Mi faccio spesso questa domanda. A essere onesto, penso di no. Ci sono dei film che riescono ad entrare nel grande circuito perché al loro interno hanno delle cose che facilitano l’approccio con il grande pubblico. Pater Familias no: è un film parecchio disturbante. Anche se fosse stato distribuito in 500 copie probabilmente avrebbe avuto le stesse difficoltà».

È un vero e proprio pugno nello stomaco…

«Sì. Ricordo che sia a Berlino che a Napoli c’erano sempre una decina di persone che uscivano dalla proiezione. Prima che il film fosse preso a Berlino, e poi da Luce, che lo ha distribuito, andammo a fare una proiezione da Medusa e chi si occupava di comprare i film a un certo punto si girò dall’altra parte. Disse che era un film bellissimo ma troppo forte».

Un film disturbante

Cosa dà più fastidio, nel film, secondo lei?

«Se i film non stabiliscono un’empatia con lo spettatore, si è più facilitati nel vederli. Per esempio, Gomorra film, che io trovo ineccepibile per come è diretto e costruito, ha quella freddezza di fondo per cui allo spettatore, di tutti gli attori che si ammazzano tra loro non frega nulla. Lo vede come un western, senza partecipare emotivamente, come un film di intrattenimento. Quando invece c’è qualcosa che ti fa empatizzare con qualcuno che sembrerebbe moto lontano da te, allora ti fa soffrire, ti disturba. Ricordo che, quando proiettammo Pater Familias a Napoli, parecchie persone dei quartieri bene mi dissero: ‘Pensavo che questi fossero proprio diversi da me, invece mi sono entrati dentro’. Ecco, quando c’è questo meccanismo, allora il film diventa difficile da digerire».

I vuoti della famiglia

È un film sulla delinquenza minorile ma anche e soprattutto sulla famiglia.

«Assolutamente. La camorra, volendo banalizzare, è l’aspetto esterno. Nel film ci sono le cose che portano fin lì, il cuore. È come avvicinarsi al sole: più ti avvicini e più scotta».

Il vuoto familiare, l’assenza di opportunità, sono tutte cose che oggi sono all’ordine del giorno, nella cronaca…

«È un’equazione comune a tutti i fenomeni delinquenziali e terroristici. L’ignoranza, il non avere una famiglia dietro, abitare in luoghi privi di qualsiasi occupazione, favoriscono la delinquenza, la criminalità e l’ingresso in gruppi terroristici. Nasce tutto dal posto in cui nasci, e quindi dalla famiglia che ti genera, dal luogo di appartenenza della famiglia».

Lavorare con l’inconscio

Qualche tempo fa, in un’intervista, lei dichiarò che non sapeva spiegarsi come fosse entrato così in comunicazione con un ambiente che non era quello borghese in cui era cresciuto. A distanza di tempo lo ha capito?

«È una domanda che mi sono fatto per tutti i film che ho girato. Ho una facilità estrema nell’entrare in contatto con un certo tipo di realtà, ad approcciarmi a personaggi considerati molto difficili. Forse perché è qualcosa che fa parte in qualche modo di me. è come se la mia natura riconoscesse una parte di questa roba che però non ha preso il sopravvento, è qualcosa con cui sono in empatia, anche se non la giustifico. Queste persone avvertono che in me c’è una mancanza totale di giudizio nei loro confronti e quindi si stabilisce un rapporto che è fatto anche di rispetto: sanno che non le sto manipolando ma che non sono come loro. Quando ho girato Pater Familias sono stato in contatto con gente che mi ha raccontato cose che secondo me non ha mai raccontato a nessuno! È un interessante fenomeno psicanalitico, ma non lo voglio svelare perché mi interessa solo avere questa capacità».

Forse perché pensa che se andasse a scandagliarla razionalmente la perderebbe?

«Mi capita anche con i sogni: quando faccio un sogno particolare, mi interessa raccogliere le emozioni che mi ha procurato più che analizzare il sogno. Ho un impatto più emotivo che razionale perché mi serve per quello che mi piace fare, cioè restituire in qualche modo le emozioni che ho provato, ampliarle per farle arrivare ad altre persone. È questo il lavoro che mi piace fare. Ricorda nel film le immagini dei cagnolini e dei gatti? Non hanno alcun nesso con la storia, ma montate in quel preciso punto provocano un corto circuito emotivo fortissimo. È quello che chiamo lavorare con l’inconscio. Quelle immagini le rubai: sentivo che mi sarebbero potute servire e quando le inserii nel film fecero la differenza. È un modo molto istintivo di lavorare».

Un film ingombrante

A volte si tende a rinnegare il primo film, o il primo libro. Lei quanto è legato ancora a Pater Familias?

«Nel bene e nel male molto, purtroppo, perché mi rendo conto che è un film talmente forte che fa sempre da punto di riferimento mentre io sono un tipo a cui piace cambiare tanto, spaziare dalla tragedia alla commedia al documentario. In questo senso mi ha un po’ complicato la vita, ma adesso me ne sono liberato: hanno ormai capito con chi hanno a che fare (ride)».

L’immaginario collettivo

Nel film ci sono alcune scene in cui gli attori se le danno di santa ragione davvero, senza fingere. E le scene di rapina sono girate all’insaputa dei passanti. Ha voluto riprodurre fedelmente la realtà.

«È una cosa a cui tengo molto. Bado molto all’immaginario collettivo. Pensiamo a come i criminali tengono la pistola. C’è stato un momento che la moda, nei telefilm americani, era che tutti tenevano la pistola orizzontale, con la mano sollevata. Era solo una moda. Per girare Pater Familias ho parlato con degli omicidi che mi hanno raccontato i vari modi di uccidere e tenere la pistola. Ebbene: non c’era nessun immaginario collettivo. Quando ho girato la scena dell’accoltellamento avevo nascosto la cinepresa, la gente non sapeva che era finta. Le macchine non si sono fermate, hanno semplicemente evitato il cadavere. Qualche passante, spaventato, ha guardato da un’altra parte, altri hanno continuato a camminare nell’indifferenza più totale. Il codice è quello».

Pater familias

Questo forse fa più male dell’immagine del morto ammazzato, no?

«Certo. E tutto risale a una scena a cui ho assistito a 15 anni. Ero a Montesanto, diretto verso piazza Dante. Era ora di pranzo, la strada era piena di gente. All’improvviso vidi un uomo sui 75 anni, bello, alto, con i capelli grigi e un vestito elegante da bancarella indossato molto dignitosamente: camminava con rigore marziale e una pistola enorme in mano, tenuta verso il basso. La gente non scappava, continuava a camminare come se niente fosse, ne rimasi sconvolto. Una scena che mi è rimasta scolpita in mente e che mi ha fatto capire che la realtà è sempre superiore a qualsiasi tipo di fantasia che puoi creare a tavolino».

La violenza fa schifo

È per questo che non inventa niente, nei suoi film?

«Esatto. La verità è che se riesci a vedere la violenza al cinema vuol dire che è finta. La violenza vera è insopportabile, penso sempre che il miglior modo di debellare la violenza sia di mostrarla. Vuoi fare un film contro la violenza? Allora fai vedere quella vera e stai sicuro che non piacerà a nessuno. La gente scappa, perché la violenza fa schifo».

Secondo lei come si possono colmare i vuoti dei ragazzi che poi vengono occupati dalla criminalità?

«È come chiedere come si ottiene la pace nel mondo. Purtroppo credo che il mondo sia un organismo vivente che, come il nostro, è preda anche di malattie. Ci sono cure ma anche elementi imponderabili e casuali che la determinano. Sicuramente credo molto nelle persone. A volte ci sono delle persone che riescono in qualche modo a fare più di altre, sono dotate di qualcosa che gli altri non hanno. Può avvenire nella politica, nella chiesa, nella società civile. Periodicamente e fortunatamente ci sono momenti in cui ci sono meno situazioni di questo tipo perché forse ci sono delle situazioni che favoriscono un’azione positiva, ma purtroppo la criminalità fa parte della società, è ineliminabile. Quando ci sono stati momenti di grande tranquillità è sempre stato perché c’era un accordo sociale. So che fa orrore, ma è così».

Cose dell’altro mondo

Pater Familias non è stato l’unico film in cui ha precorso i tempi: in ‘Cose dell’altro mondo’ immaginava un paese veneto in cui gli immigrati spariscono improvvisamente a causa delle dichiarazioni xenofobe di un imprenditore locale. Ha avuto problemi nella distribuzione anche di quel film?

«Continua ad andare in giro tantissimo! Medusa lo difese molto ma ci fu un mese, prima di portarlo a Venezia, quando uscì il trailer, molto turbolento. La Lega fece un’interrogazione parlamentare per impedirne la visione. Zaia disse che avevo descritto quelli della Lega come zulù. A una settimana dalle riprese il sindaco di Treviso ci cacciò e dovemmo girare lì vicino».

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Toccare i nervi scoperti

Addirittura?

«Su questa cosa ho ragionato molto. Si ricorda il film di Zalone – che io considero un genio – quando va a cantare a trabocchetto alla riunione della Lega? Secondo lei perché non si sono incazzati? Perché quando la comicità è un gioco non dà fastidio. Quando invece tocchi un nervo scoperto, quando la comicità è mascherata, allora affondi. Cose dell’altro mondo non è una commedia: c’è una malinconia devastante. Un botto iniziale, quando spariscono tutti quanti e, alla fine, una deriva che fa andare i personaggi sempre più a fondo: Abbatantuono perde l’amante nigeriana, Mastandrea ritorna con la fidanzata che aveva avuto un bambino nero da quello che era sparito. Personaggi alla deriva in un paese che torna agli anni ‘50».

Come le è venuta l’idea di girarlo?

«Fu una grande intuizione del produttore. In Messico aveva visto il film ‘Un giorno senza messicani’, in cui sparivano tutti  messicani a Los Angeles e mi chiese se si potesse fare una cosa del genere in Italia. Mi ricordai che un amico mi aveva inviato un video di YouTube in cui c’era Pier Gianni Prosperini, di An, che faceva comizi dicendo: ‘Prendete il cammello e andate a casa’. Lo contattai e andai a casa sua dicendogli che volevo fare un film su di lui: tutti i dialoghi del film sono conversazioni sbobinate. Ricordo che stavo scrivendo la sceneggiatura con Diego De Silva e lui propose di far finire il film con il suo suicidio. Dissi che sarebbe stato troppo tragico, ma sei mesi dopo Prosperini davvero tentò il suicidio perché arrestato per traffico di armi. La realtà, spesso, supera la fantasia».

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