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Napoli non sarà mai una città normalizzata (Sputtanapoli esisteva già negli anni Cinquanta)

Dalla paura di vivere dei napoletani, di cui parlò Nicola Pugliese, alla produzione autoctona di luoghi comuni. A D&G possiamo solo imputare di non essere stati geniali come “Carosello napoletano”

Napoli non sarà mai una città normalizzata (Sputtanapoli esisteva già negli anni Cinquanta)

Nicola Pugliese e la paura di vivere dei napoletani

Fu lo scrittore Nicola Pugliese, se non erro, ad affermare in un documentario che i napoletani hanno paura di vivere e perciò tendono a teatralizzare, i sentimenti, la vita (sulle cause del fenomeno non mi dilungo: una storia di sofferenze che è stata raccontata, procedendo a ritroso, da Malaparte, ne “La Pelle”, nel suo ultimo episodio (il dopoguerra), e prima ancora da altri attenti a svelare l’imbroglio coloniale anche dietro al decantato Borbone e, come detto, via via procedendo all’indietro, essendo l’ultimo atto di vera autonomia della città il Ducato). Un modo di vivere un distacco dalle cose, come la nostra ironia, il proverbiale “epicureismo” napoletano.

Attenzione, non sto dando dell’inautentico al napoletano, sto solo sostenendo che, a dispetto della sua apparente estroversione, vive i suoi sentimenti veri spesso al riparo di una maschera, con una riservatezza, e anche una nobiltà, da fare invidia ad altri popoli che di questi valori si fanno vanto, o forse “si astipa” il meglio per il finale, vedi certi monologhi eduardiani a conclusione di certe opere, lo stesso Pulcinella/Eduardo che toglie la maschera.

La produzione autoctona di luoghi comuni

Questa tendenza a teatralizzare spiegherebbe anche la produzione autoctona di luoghi comuni, nel senso che spesso siamo noi stessi a produrre il folclore sulla città, che poi vendiamo, e su cui poi – come è normale che sia – ci azzuppano gli altri. Ora, mentre ci sono stereotipi innocui, ve ne sono altri che deprimono, non lasciano scampo, si risolvono in meri inviti a darsi alla fuga, e mi riferisco alla nuova olografia basata su palazzoni grigi, cocaina, miniboss. Non che si debba occultare “il male” ma, quello, o lo sai raccontare (un buon esempio, credo, l’ultimo Santoro), anche con pietas e scavando davvero a fondo, oppure è meglio che levi mani.

Qualcuno osserva che proprio perché i napoletani sono attori, in gran parte caratteristi, non si riesce a raccontare una normalità, e da un lato abbiamo la riproposizione (specie da parte “governativa”) del folclore “pizza e corno” (salvo che poi quello stesso governo cittadino si lamenti per la pubblicità di D&G), dall’altro il nuovo folclore “pistola e duje fritture”.

La Napoli “normale” e “volenterosa”

Tutto vero, tutto giusto: non si riesce a far venir fuori anche quella Napoli “normale” e “volenterosa”, “comune”, secondo qualcuno “controcorrente”, se non addirittura “calvinista” (mah), che pure è presente. Detto ciò, sapendo di attirarci critiche feroci, diciamo che Napoli ha sviluppato, sì, questa “normalità”, ed è un fatto dal valore inestimabile, ma, purtroppo e per fortuna, mai sarà del tutto normalizzata, sterilizzata, neutralizzata. Nel bene e nel male. E non parlo dei “primati” sempre sfoggiati senza senso del ridicolo, è chiaro, ma di qualcosa di più profondo, forse un sentire (ne fa cenno anche Raniero Virgilio nel suo bel pezzo su la Gaiola).

Il che non deve renderci ostili, è chiaro, alla modernità vera (ma Napoli è anche oltre quest’ultima), al cambiamento (che c’è sempre stato, anche se lo si nega, pare siano trascorsi secoli dai baraccati di Via Marina eppure qualcuno più grandicello ancora ricorda quelle topaie).

Un affare di Nennelle e Poppelle

Naturalmente, lungi dal voler fare sociologia o antropologia, quella che lanciamo è un’ipotesi, ma forse neanche tanto sballata. Si dia atto solo dello sforzo di comprensione. Di quello che ci pare si stia perdendo traccia, su questo come su altri temi, in questo paese. Se l’ipotesi dovesse però essere vicina alla realtà, sarebbe fuori luogo sia la levata di scudi contro lo stereotipato spot di D&G, dal momento che da sempre le grandi città sono viste all’esterno (da registi, fotografi, pubblicitari) con occhi luogocomunisti, chiedetelo ai newyorkesi, ai parigini, agli stessi romani.

E dal momento che i primi a fare di Napoli un affare di Nennelle e Poppelle, trattorie tipiche e comici simpatici, siamo noi, spesso con risultati non proprio soddisfacenti (aridatece la cattiveria di Peppino De Filippo!). Infine, perché, a ben vedere, l’unica cosa che davvero si può imputare a D&G è il non averci restituito, sia pure nell’operazione apertamente folclorica, la genialità visionaria di un Ettore Giannini in Carosello Napoletano, capolavoro assoluto del genere.

P.S. Scopro che “un po’” permalosi lo eravamo anche allora, leggendo che all’uscita di quel film un sedicente “amico di Napoli” di stanza a Trieste (ah, già allora il vizio della lettera dallo “straniero”!) aveva accusato Giannini in una missiva al sindaco Lauro di aver realizzato una “diminuzione morale di Napoli”, un’“accozzaglia di luoghi comuni”. Lauro, per effetto di una campagna che oggi definiremmo “antisputtanapoli”, diretta a sanzionare i cliché sulla città, fu perfino indotto a bloccare la lavorazione di alcuni film tra cui un Blasetti su testo di Peppino Marotta interpretato addirittura da Eduardo (“Tempi nostri”, 1954). Altri tempi… Che ciclicamente tornano.

 

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