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Paok Salonicco-Napoli, 1988: venti feriti, uno ero io

Il racconto della trasferta del 1988, primo turno della Coppa Uefa che poi fu vinta dal Napoli. Lo stadio Toumpa e l’agenzia Ansa

Paok Salonicco-Napoli, 1988: venti feriti, uno ero io
Paok Salonicco-Napoli del 1988, Coppa Uefa

L’estate era Maradona

È stato ventinove anni fa ma il ricordo diventato pregiudizio non si è mai sopito, persino quando a messa, nella liturgia della Parola, ci sono le lettere di san Paolo ai Tessalonicesi. Tessalonica, Thessaloniki, Salonicco. Grecia. La prima vacanza dell’estate 1988. Agli inizi di ottobre. Per uno studente ventenne e autoctono della costa di Sorrento l’estate è un’ampia categoria meteosofica, che va da aprile fino agli inizi di novembre. Le vacanze allora erano le trasferte del Napoli di Maradona.

Eravamo in quattro. Ultrà della curva B ma relativamente moderati. In casa, il nostro posto era a metà gradinata per non assorbire troppe sostanze nebbiose, tra fumogeni e spinelli. Il 6 ottobre 1988 a Salonicco era in programma la gara di ritorno dei trentaduesimi di finale della Coppa Uefa, l’attuale Europa League. Il Napoli la conquistò a Stoccarda e il cammino cominciò con il Paok. All’andata era finita uno a zero. Maradona su rigore. Il quartetto base delle partite, per Salonicco, subì una modifica: Marco al posto di Tonino “Occhiale”. Poi i soliti: io, Salvatore detto Tatore Savoldi e Tonino “Diaz”, dal nome di un centravanti argentino dell’era pre-Maradona.

Il concetto di trasferta implicava spirito di adattamento, pochi soldi, zero comodità. Ci imbarcammo a Brindisi e non cogliemmo il primo presagio di sventura: il porto di Igoumenitsa, nell’Epiro, era chiuso e la nave arrivava parecchio più a sud, a Patrasso. Da lì bisognava risalire tutta la Grecia per giungere alla meta. Durante la traversata riuscimmo a scroccare un passaggio in auto fino ad Atene. Ci dividemmo e non andò tutto bene. Marco e “Diaz” furono ospiti di un gentile signore turco che all’uscita del porto si rivelò essere un contrabbandiere di tappeti e altri oggetti di artigianato diretto in Bulgaria. I controlli furono pignoli e i miei due amici furono costretti, da napoletani, a provare la loro estraneità. Arrivammo in piena notte nella capitale greca.

Lo stadio Toumpa

L’indomani a Salonicco era il giorno della partita e un’intera città attendeva l’evento come una finale vera e propria. Il Napoli era la squadra del giocatore più forte di tutti i tempi e i famigerati ultrà del Paok, dagli odiati colori bianconeri, avevano preparato cori in lingua italiana sulla dubbia moralità della mamma di Diego. Entrammo allo stadio verso le diciannove. Un’ora e mezza prima del calcio d’inizio. Lo stadio del Paok si chiama Toumpa, che richiama sinistramente l’idea di tomba anche per la sua caratteristica di essere infossato, al di sotto del livello stradale. Il resto lo fanno i suoi tifosi, noti in tutta Europa per l’inclinazione ai tafferugli.

Una volta dentro, ammassati con gli altri napoletani in uno spicchio di curva, ci fu chiaro che in confronto le trasferte di Bergamo e Verona, giusto per citare due città dove non c’è amore per la questione meridionale, erano pacifici raduni di boy-scout. Il Toumpa era davvero una Tomba infernale. Accadde tutto al minuto 17 del primo tempo. Assist di Maradona per Careca e diagonale imprendibile. Gol. Zero a uno. Fu subito guerriglia.

L’agenzia Ansa relativa agli incidenti di Paok-Napoli del 1988

Una bottiglietta di acqua frizzante

Era tre anni dopo la tragedia dell’Heysel e la nostra protezione era un esile cordone di polizia. Per fortuna, la rappresaglia fu un costante lancio di bottiglie, monete, pietre. Una bottiglietta di acqua frizzante mi colpì in testa. Una ferita di pochi centimetri che non smetteva di gettare sangue. Con la speranza di continuare a vedere la partita, tentai di tamponarla per una decina di minuti. Poi il responso spietato dei sanitari interpellati dai miei amici e da altri tifosi: suturare la ferita in ospedale.

Fui portato a bordo campo, a due passi dalla panchina di Ottavio Bianchi, e caricato su un’ambulanza. Mentre si chiudevano le porte, fece irruzione un trentenne napoletano esagitato. Fingeva un malore, si vedeva chiaramente. Il nostro breve colloquio fu in dialetto napoletano che traduco così. Io: “Ma sei scemo, non è finito neanche il primo tempo e fai questa sceneggiata per andartene? Stiamo vincendo uno a zero”. “Ma che me ne frega della partita hai visto questi come stanno armati? Da qua dentro non usciremo vivi, almeno se faccio così mi salvo”.

Il giorno dopo fuggimmo da Salonicco

Non aveva tutti i torti. In ospedale mi accompagnò Marco mentre Salvatore e Tonino, rimasti allo stadio, arrivarono in albergo solo alle tre di notte. Il Napoli aveva pareggiato, superando il turno. L’assedio al Toumpa era durato ore e il bilancio finale fu di venti feriti (compreso me). Il giorno dopo fuggimmo da Salonicco con un trabiccolo chiamato aereo (dieci posti) e ritornammo a Patrasso. Era il 1988 e non esistevano i cellulari. Non solo. Per evitare domande non chiamai a casa.

Fu così che da aspirante giornalista, ero un ventenne pubblicista, capii cosa significava la mancata verifica di una notizia. L’agenzia Ansa, infatti, fece un lancio con l’indicazione dei nomi di due contusi, tra cui il mio, e soprattutto scrisse che ero rientrato a Napoli con un volo charter. Il Tg regionale della Campania fece un accurato servizio e mio padre seppe della testa rotta in consiglio comunale. La seduta fu sospesa e alcuni volontari si offrirono di andare all’aeroporto di Napoli per accogliermi. Non mi trovarono.

C’entra anche la guerra di camorra

Ignaro di tutto questo, io e i miei tre amici eravamo a Patrasso, in attesa dell’imbarco per Brindisi. A bordo io e Salvatore trovammo un passaggio in auto fino a Pompei, grazie a due signori. Uno si chiamava Raimondo ed era il venditore ambulante più noto degli Scavi di Pompei. L’altro, coi capelli bianchi e dei baffoni spioventi di uguale colore, disse di essere il suocero di Alfieri della “Vinicola”, nota trattoria della città mariana. La “Vinicola” fu una sorta di mela di Paride della prima, storica guerra di camorra tra i cutoliani e la Nuova famiglia di Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. Il 26 dicembre 1981, i killer di Raffaele Cutolo uccisero Salvatore Alfieri mentre giocava con una nipotina. Da allora, il fratello boss Carmine detto ‘o ntufato, che vuole dire costipato, indossò una cravatta nera con la seguente promessa: “La toglierò solo quando li avrò sterminati tutti”.

In realtà, i problemi del viaggio fino a Pompei non furono di natura camorristica. Per i due l’autostrada era una via come un’altra. Raimondo guidava al centro della carreggiata e conosceva le marce solo fino alla terza, ignorando la quarta. Al suo fianco, il signore coi baffoni ascoltava Merola da un mangianastri e soprattutto beveva litri d’acqua da un boccale di birra da un litro. Ovviamente i due non sapevano dell’esistenza degli autogrill e Raimondo fermava in continuazione l’auto nelle piazzole d’emergenza per consentire al suo amico di fare pipì.

A Pompei telefonai finalmente a casa, due giorni dopo la notizia del ferimento data dal Tg regionale. Mia madre, buonanima, mi consigliò di non tornare: “Tuo padre non userà bottiglie ma le mani”. Obiettai che avevo la testa fasciata. Lei: “Colpirà altre parti del corpo”. In compenso a Piano di Sorrento trovammo un folto comitato d’accoglienza. Mancava solo la banda musicale. Eravamo gli eroi di Salonicco.    

(tratto dal Fatto quotidiano del 19 agosto 2017)

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