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Barcellona, la crisi dell’Occidente e l’importanza di non perdere la capacità di saper ridere

Sul mercato delle ideologie totalitarie c’è solo l’islamismo politico. Noi Occidente non sappiamo più chi siamo e stiamo abdicando a quel po’ di pensiero che abbiamo

Barcellona, la crisi dell’Occidente e l’importanza di non perdere la capacità di saper ridere

Pulcinella e Mentana

Sono a discutere con un amico del prossimo scudetto, siamo tutti e due convinti che lo vincerà il Napoli ma lui sostiene che non si debba dire in giro. La scaramanzia. Poi dite che non vi piace il corno di De Magistris…

Raniero Virgilio mi ricorda che in ogni caso lo scudetto è un’illusione, non esiste davvero. Ma, Raniè, vuoi vedere che ce lo devi dire tu? Lo sappiamo bene, a Napoli. In un libro su Pulcinella, che Mentana non ha letto, Giorgio Agamben rammenta che la maschera andava dicendo che a Napoli «’o mare nun se vede». Ma non era “il mare che non bagna Napoli” ortesiano. No. Era la convinzione che se il mare «non è altro che un infrangersi di una onda contro l’altra», e «quella che adesso è passata e le altre infinite che seguono…sono quelle che sono e, tuttavia, restano inconcluse, inconcludenti, possibili…», tutto è illusione, noi stessi siamo illusione: «Ammén et requie matrerna! Aggio capito; je song’ o’ mare, song’ o’ mare…».

L’illusione è il cuore dell’esistenza, lo sappiamo bene, noi ancora coricati, come la sirena, sotto la Montagna, e affacciati sul mare. Lo penso mentre arriva la notizia dell’attentato a Barcellona. Ancora, vicino al mare…

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L’ultimo totalitarismo è l’islamismo politico

Io non sono un analista ma noto alcune cose. La prima è che oggi sul mercato delle ideologie totalitarie – giustiziati dalla storia i totalitarismi del secolo scorso, ma, dicendola tutta, senza dare risposte convincenti alle domande che ne erano alla base – c’è solo l’islamismo politico. Vi si converte non solo chi abita quei posti che hanno subito il colonialismo ma anche chi è qui da noi da tempo e perfino alcuni giovani occidentali insoddisfatti.

La religione non spiega tutto ma l’elemento religioso è importante

La religione non spiega tutto, perché c’è l’elemento ideologico che spesso viene trascurato, ma il religioso è importante: il Dio che domina nell’islam sunnita da un po’ (da molto tempo? da sempre?) è lontano dall’uomo, un simbolo di onnipotenza e onniscienza odioso. Noi al massimo moriamo per un Dio troppo vicino, zuccheroso, appiattito sulla nostra mediocrità, coi preti che ballano in tv e ti telefonano a casa, ammiccano come dei televenditori di pentole( ma per favore, non si tiri in ballo Pulcinella col suo tragico nel comico, la sua alterità). Rispetto ai totalitarismi del secolo scorso, quello dell’islamismo radicale e nichilista è una faccenda più complessa, non ci sono stati da abbattere, o meglio abbiamo una serie di “stati” che lo alimentano, partendo dai sauditi, ma ormai si tratta di un male che è assai interno a noi, radicato.

Noi non sappiamo più chi siamo

La riforma radicale dell’islam, dicono, è indispensabile, ma noi non siamo in grado di aiutarla perché non sappiamo più chi siamo e stiamo abdicando a quel po’ di pensiero che abbiamo, siamo nell’appeasement culturale, spirituale, più profondo. Qualcuno con in testa l’ultima Fallaci si agita un po’ da dietro la tastiera ma non ha idea di quale humus dovettero avere le crociate, non siamo in grado di fare, anche volendolo, alcuna la guerra, ma nemmeno una vera pace (che ormai è affare che si traduce in indifferenza camuffata da multiculturalismo, vaghi, generici discorsi buonisti da spiaggia o da assessorati alla cultura). Tutto perde senso, anche l’appello all’occidente (quale? E, noi a Napoli, siamo più occidente o più oriente?), per non dire all’Europa. Eppure sono parole che potrebbero essere vivificate.

Farsi morettianamente del male

C’è un doppio odio di sé, uno che dobbiamo conservare, che è nella nostra essenza, odio della propria – necessaria – volontà di conservazione, di sopravvivenza, che diventa benefico odio di ogni rigidità, di ogni mortifera cristalizzazione, di ogni identitarismo chiuso, che accomuna l’eredità classica al cristianesimo stesso. 

C’è poi un odio negativo, nel quale indugiamo facendoci morettianamente del male, che trascura proprio quel patrimonio enorme di civiltà e di pensiero, nato nel mediterraneo e giunto fino all’estremo occidente, alla sue radici: da Socrate che mangia la cicuta a Dante che studia i sufi, conosce la sura XVII (il viaggio di Muhammad nell’aldilà) ma – à la guerre comme à la guerre – mette Maometto (e suo cugino Alì) all’inferno, e poi l’eros del Rinascimento, Federico II, i grandi mistici, Carlo Magno a Potiers, i trecento di Termopili, le repubbliche marinare, gli ebrei che insorsero nel ghetto di Varsavia, le cociare violentate a Cassino che decisero di portare avanti i loro parti, l’antifascismo di indole, non ideologico, delle Quattro Giornate di Napoli. I soldati e i pirati. Gli irregolari. I poeti di strada, i cantastorie. Gli sbandati. Le puttane e i ricchioni che si davano agli americani nel dopoguerra a Napoli per sopravvivere. I giovani scugnizzi che perdevano la vita investiti dai camion degli alleati a Via Toledo.

La differenza è saper ridere

La terra e il cielo. Il cielo stellato di Giotto e i bassifondi di Berlino e New York cantati da Lou Reed. Il cielo con le sue potenze ineffabili, che mettono in luce la finitezza dell’uomo, in Leopardi. “Stamm sotto ‘o cielo”: Sergio Bruni e Mahler. Il mare…
Logos, stato dell’anima, più che territorio.

E, ancora, il riso che allevia la sofferenza, la trasfigura, perché c’è il tragico e c’è anche la commedia. Riso che conosce e libera. E Nietzsche supera l’uomo, la sua mediocrità, col riso oltre che (e più che) col discorso ai guerrieri del Zarathustra. Il riso di Aristofane. Pulcinella. Totò. Troisi.
Anche Pasolini rideva. E pure Cristo, anche se non ve l’hanno detto (con «rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», percula i farisei che lo avevano fermato e con essi ogni potere terreno).

Forse anche questa è una differenza. Ridere. Saper ridere. Anche e soprattutto di sé stessi, del nostro essere, nel contempo, reali e illusori. Questa capacità, nella guerra come nella pace, non la perdiamo.

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