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Quella strana intervista a Ghoulam

Un estratto del nuovo romanzo di Angelo Petrella: Nadwa, la vista su New York e un’intervista di Ghoulam che cambia le cose.

Quella strana intervista a Ghoulam

Pubblichiamo un estratto di “Operazione Levante”, l’ultimo libro di Angelo Petrella edito da Baldini & Castoldi.

La scrivania di Nadwa è di fronte alla finestra. Ed è un vero dramma.

Perché la vista su New York è estesa e l’Hudson, pieno di battelli e persone che passeggiano sulla riva, infonde un senso di pace che distrae dal lavoro. In particolare oggi, con questo sole caldo e già quasi primaverile. Assomiglia al sole dell’Algeria, di cui per altro Nadwa ricorda ben poco: dopo che la madre fu uccisa da un raid dell’aviazione francese, il padre si trasferì con lei negli Stati Uniti e morì pochi anni dopo di crepacuore. Si consumò nel dolore, letteralmente. E da allora Nadwa ha rimosso quasi tutti i ricordi della sua adolescenza, eccetto la lingua araba e poche ricette di cucina.

«Allora, che hai ottenuto dal leccaculo di Obama?»

Nadwa ritorna alla realtà. Si volta di scatto e si accorge che il suo capo la sta fissando dalla soglia della porta. L’ufficio è un grande spazio con tre scrivanie, moquette marroncino e tubi di acciaio ovunque. Uno schermo al plasma sulla parete in fondo è sintonizzato su Al Jazeera: è la sezione Medio Oriente della redazione esteri.

«Niente nell’immediato. Abbiamo l’esclusiva quando parlerà con l’Iran e la Russia»

«Non te lo sei lavorato?» chiede il capo che, nonostante sia un cattolico bigotto, è estremamente sensibile ai dettagli pruriginosi.

«Non nel senso che tu credi… no, non gli ho frugato nelle mutande» mente Nadwa.

«Allora non credo che farai strada nella carta stampata. Era meglio se restavi in Francia, sei troppo orgogliosa. Perché non pensi a quell’altra cosa?»

Nadwa sbuffa e si gratta il naso.

«Lo sai, il video non fa per me. Non me la sento di parlare davanti alla telecamera, e poi dovrei smettere di scrivere»

Il capo la fissa con sguardo paternalistico. Poi una segretaria lo richiama nel corridoio e lui esce fuori.

«Potresti fare entrambe le cose.»

La mattinata è fiacca: la redazione lavora per lo più a raccogliere dichiarazioni e commenti dei media arabi sul discorso di Obama. La stampa sciita, soprattutto quella iraniana, è inguaribilmente ottimista. Quella sunnita, divisa tra scettici e moderatamente interessati. Nadwa è al terzo caffè e sta inviando al grafico alcune cartine da accludere nell’edizione cartacea del giorno dopo. Non è che non ci abbia mai pensato, ma si è sentita già sovraesposta dopo l’attentato di Parigi, quando lavorava come inviata, e ora che le acque si sono calmate non le va di mostrarsi troppo in pubblico.

La televisione dell’ufficio trasmette le immagini dell’assedio di Aleppo. Dopo la pubblicità, il notiziario lascia spazio alla replica di un servizio sportivo sulla nazionale di calcio del suo paese nativo: c’è un’intervista esclusiva con alcune immagini dell’allenamento del terzino sinistro Faouzi Ghoulam.

Nadwa si incuriosisce.

Getta il bicchiere da caffè nel cestino e si avvicina per vedere meglio. Il giornalista maneggia in maniera anomala il microfono: lo regge con la sinistra, poi la passa nella mano destra e poi ancora a sinistra, dopo averlo trattenuto all’altezza della spalla. Quindi tamburella le dita attorno al bottone di accensione. Nadwa sente una specie di eccitazione risalirgli dai fianchi fin dietro alla nuca. Non è possibile. Inizia a contare i passaggi e i secondi di permanenza del microfono in ciascuna mano: uno, due, cinque… Quindi di nuovo quel gesto con le dita. Quando il giornalista conclude l’intervista, afferra il filo e finge di inciampare, scusandosi con il pubblico.

È il segnale. Nadwa riesce a fatica a trattenere l’emozione: quello che sta accadendo è reale.

Spegne il computer e saluta rapidamente i colleghi, afferrando le chiavi dell’auto e correndo via dalla redazione. Gli ascensori sono pieni. Decide di prendere le scale, sfilandosi le scarpe con i tacchi, che le rallentano i movimenti.

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