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Le mille panchine e le mille innovazioni di Zeman (che nessuno coglie)

Viaggio nel calcio del tecnico boemo, da Zemanlandia alla demolizione dei luoghi comuni, soprattutto quelli riferiti alla difesa. La storia non è omaggio, il calcio sì.

Le mille panchine e le mille innovazioni di Zeman (che nessuno coglie)

Mille e non più mille

Al destino, alle coincidenze o, se preferite, alle Arabe Fenici che risorgono dalle proprie ceneri siamo liberi di crederci o meno, ma non scorgere un tocco di sceneggiatura nel teatro della panchina numero mille in carriera di Zdenek Zeman da Praga, da Mondello e da Roma Fleming, per i fan Sdengo e per gli amici “Il Muto”, è davvero impresa ardua. Già, perché quasi cinque anni fa – era il 20 maggio 2012 – fu proprio il Marassi blucerchiato a salutare, con un successo 3-1 ai danni della Sampdoria di Iachini, la promozione del Muto in A con il suo Pescara, divenuto una delle squadre-simbolo di un’epopea chiamata Zemanlandia.

Un’epopea nata oltre trent’anni fa e giunta fino ai nostri giorni in un continuum discontinuo di emozioni, rabbie, amore, odio, luoghi comuni triti e ritriti. Una mistura di sentimenti che, spesso, fanno passare in secondo piano ciò che Zeman, 70 anni il prossimo 12 maggio, è stato ed è: uno dei tecnici che hanno maggiormente rivoluzionato l’idea del gioco del calcio e che, assieme ad Arrigo Sacchi, con il lavoro ed il sudore del campo, con i gradoni loro sì proverbiale metafora della vita, ha operato una profonda rivoluzione nei concetti tattici che animano il gioco del calcio.

Frattamaggiore

Zemanlandia, il Muto in questo ne è concorde, nasce a pochi chilometri da qui. Nello specifico, in quello che prima era un catino bollente ed oggi è un gioiellino dell’impiantistica sportiva della provincia di Napoli: lo stadio Ianniello di Frattamaggiore. Stagione 84/85, campionato di serie C2, girone meridionale. Di fronte ai ragazzi terribili di Zeman – menzione speciale per Maurizio Schillaci, cugino più forte e più scapestrato di Totò-nottimagiche, altra creatura di Sdengo che lo issò da Messina al sogno iridato in meno di dodici mesi – un’impotente Frattese guidata in panchina da Aldo Bet, libero-stopper del Milan di inizio anni ’70. Terminò 6-1 per i gialloblu siciliani e le cronache locali ne furono estasiate.

Si aveva la percezione di essere di fronte, osservando le prestazioni di quel Licata, ad un processo rivoluzionario: non una variante della zona totale, nelle declinazioni successive all’Arancia Meccanica di Ernst Happel, ma una nuova tipologia di approccio al gioco del calcio, che non sempre ha attecchito (al punto di far parlare di Utopia Zemaniana) ma, quando ha trovato condizioni ed ambiente adatto ha coniugato risultati ed estetica nel segno della meraviglia.

La storia non è un omaggio

Fare la cronistoria del percorso zemaniano, delle discese ardite e delle sue risalite, non è il miglior tributo al tecnico che più divide tifosi e amanti del calcio, tra chi ne lamenta la mancanza di pragmatismo e chi, viceversa, ne esalta la bellezza e la spettacolarità delle sue squadre. Così come crediamo che la sacrosanta battaglia antidoping del 1998 abbia finito per danneggiare oltremodo Zeman, offuscando Zeman da grande allenatore ed accendendo i riflettori sullo Zeman icona stereotipata del dureppurismo e dell’antijuventinismo più esacerbato, avvolto nella sua nuvola azzurrina del fumo delle sue care e vecchie Marlboro Light. Piuttosto, è proprio oggi – al traguardo delle mille panchine in carriera – che è il momento di focalizzarci su quello che è il calcio di Zeman. I suoi principi, la sua forza, la sua prorompente innovazione.

Difendere verso la palla e NON la palla. Per attaccare

Primo, la difesa. Esatto. “Zeman non cura la fase difensiva” – è il suo grande limite. “Zeman ha letto solo una parte del libro del calcio” – borbotta Italo Cucci. In effetti, per Il Muto la fase difensiva non esiste ma non nel senso di non essere curata, ma nella direzione di un orientamento-monofase verso il gol. Nel calcio di Zeman il principio non è difendere la palla, ma attaccare la palla. In questo senso i difensori, specie i centrali, sono i primi depositari del principio base del suo calcio: chiudere gli spazi agli avversari stando alti, applicando sistematicamente il fuorigioco ed assumendo come stella polare di riferimento proprio la sfera di cuoio.

Automatismi

Il terzino che spinge anche fino alla linea di fondo deve sempre ottenere appoggio e copertura dagli interni di centrocampo chiamati, nel contempo, a premiare e beneficiare dei movimenti dei tre attaccanti, non disdegnando l’inserimento negli spazi intermedi offerti dagli avversari disorientati dal continuo movimento senza palla e preoccupati dai terzini che diventano, di fatto, uomini in più.

Nella gif animata, la sublimazione di questo principio di gioco in un Pescara-Gubbio del novembre 2011, con una combinazione con la palla da terzino a terzino: cross di Zanon (12 assist al termine di quella stagione) per la testa di Balzano, con tutti e tre gli attaccanti che portano via gli esterni avversari con i centrali eugubini costretti a scivolare sugli interni.

Portiere? E anche libero. E anche regista

La spregiudicatezza di quest’approccio ultra-ultraoffensivo comporta un rischio: trovarsi frequentemente in situazioni di palla scoperta con i difensori presi di infilata dagli avversari che, approfittando di half-spaces talvolta piuttosto liberi godono di situazioni di palla scoperta. Ed è qui che emerge un altro cardine del calcio zemaniano, uno degli aspetti realmente rivoluzionari del calcio del boemo: l’interpretazione del ruolo dell’estremo difensore. Ancora oggi ricordiamo della tragica vicenda umana di Franco Mancini, stroncato da un infarto il 30 marzo del 2012 quando era lì con Zeman a Pescara a fargli da preparatore dei portieri.

Amante di Bob Marley, una non brevissima apparizione anche a Napoli voluto proprio dal Muto, Mancini ha stupito l’Italia con la maglia del Foggia, con le sue uscite a centrocampo e la sua capacità di giocare con i piedi la sfera, impostando l’azione e fungendo da libero aggiunto all’occorrenza. Un innovazione che il calcio italiano, se dapprima Mancini rappresentava una mosca bianca non ricordando nessun predecessore, ha iniziato via via a recepire.

Reina

Basti osservare una qualsiasi partita di una qualsiasi squadra guidata in panchina da un allenatore non proprio proattivo nel suo credo calcistico come Giampiero Ventura e di come il ruolo del gioco con i piedi del portiere sia, nel suo gioco, fondamentale per rappresentare una soluzione in più in fase di prima impostazione. Ma non serve andare lontano per comprendere quanto Pepe Reina sia protetto da Sarri da ogni critica per qualche topica di troppo fra i pali proprio in virtù dell’imprescindibilità dello spagnolo negli equilibri complessivi della squadra, sia per quanto concerne l’impostazione che per quanto attiene alla regìa. Infatti, non crediamo di andare lontano dalla verità se affermiamo che, in una squadra dalla visione di gioco proattiva e dalla mentalità ultraoffensiva, il portiere sia il primo regista.

Mancini, Konsel, Anania

E si tratta di una rivoluzione copernicana che Zeman ha introdotto ed attuato per primo in Italia con tre grandi interpreti: Franco Mancini, Michail Konsel, Luca Anania. Osserviamo quest’ultimo, prelevato a 31 anni dalla Pro Patria in C2, come sia determinante nel ribaltamento situazionale. La gif si riferisce ad Empoli-Pescara 0-2, gennaio 2012. Anania, dopo aver bloccato una conclusione sa che un imberbe Lorenzo Insigne attacca la linea del fallo laterale superando le linee avversarie creando un lato forte sulla sinistra del fronte di gioco del Pescara, tagliando fuori il centrocampo e consentendo a Nielsen (interno destro) di cambiare posizione andando ad appoggiare Lorenzo che sa che ben due compagni di reparto attaccano il lato debole avversario.

Come vedete è il ripetersi del verbo “sapere” declinato alla terza persona singolare che spiega tutto: il calcio di Zeman è un calcio fatto di consegne, in cui ciascun interprete sa cosa deve fare e come farlo.

Non ispirare, ma lasciati ispirare

Ed uno dei protagonisti attivi di questa rivoluzione calcistica è colui che, ancor oggi, nel gergo calcistico viene ritenuto un “ispiratore di gioco”: il regista, anzi il centrale di centrocampo. Quante volte abbiamo sentito parlare nel Pescara di Verratti che “ispirava” la manovra? Oppure, quante volte abbiamo letto, nella sua Roma-bis, dello scandalo derivato dal preferire Tachtsidis a De Rossi? Nel primo caso, è inesatto dire che era Verratti ad ispirare la manovra. Al contrario, era la squadra ad ispirare il gioco di Verratti. Un concetto, questo, non semplice da metabolizzare per chi, già da giovanissimo, mostrava le sue qualità da predestinato. Infatti, inserire Verratti nei meccanismi dell’ uno-due tocchi e della corretta posizione in campo ha richiesto un intero girone d’andata, dopo che Zeman ebbe a preferirgli il brasiliano Togni, tanta C e poca B per lui.

Perché? Perché il centrale di centrocampo zemaniano ha essenzialmente due compiti: 1) rappresentare il riferimento della linea difensiva sul come e quando salire per far partire il fuorigioco; 2) fungere da olio del motore di un sistema dagli ingranaggi definiti. In soldoni: mentre il regista à la Pirlo decide lui dove far fluire il gioco, il centrale di centrocampo zemaniano è indirizzato dai movimenti dei compagni. Osservate dove, in questo Pescara-Sampdoria prenatalizio Verratti, che sa del caratteristico taglio alla Callejon di un importantissimo attaccante esterno chiamato Marco Sansovini va a piazzare la sfera.

Attacco, difesa, limiti e luoghi comuni. Pro e contro

Coloro che, secondo la vulgata sono quelli maggiormente esaltati dal 4-3-3 di Zeman sono gli attaccanti. Se osserviamo gli aridi numeri, da Ciccio Baiano ad Immobile, è indubbiamente vero, così come è tuttavia altrettanto vero che non tutti gli attaccanti sono tagliati per interpretare un tipo di calcio fatto di movimenti senza palla e della continua ricerca del legame tra il lato forte e il lato debole.

Vivendo a Cagliari per lavoro ed osservando da vicino il Cagliari del Boemo, nessuno dei principi cardine del calcio zemaniano era coniugato dai due esterni d’attacco (Cossu-Ibarbo), sia perché costruttori di gioco puri (Cossu), sia per mancanza di intensità (il colombiano). Il difetto principale di quella squadra non era una retroguardia che, numeri alla mano, reggeva meglio di quella attuale di Rastelli, era proprio una prima linea che, tolto Sau, infortunato semicronico, non disponeva di esterni offensivi adatti alla finalizzazione.

Scelte alternative e conservative

Ed è stato questo – secondo gli addetti ai lavori – il limite più grande del Boemo: non riuscire a piegare le proprie idee all’organico a disposizione. Lo ha fatto parzialmente a Roma con Totti, che partiva da sinistra per svariare su tutto il fronte, con il risultato di dover provocare lo spostamento di Pjanic sulla linea degli attaccanti proprio per evitare che si pestassero i piedi nelle rispettive zone di competenza.

Lo ha fatto a tratti anche a Pescara, dove in alcuni frangenti non sono mancate scelte conservative (Capuano a uomo su Sau in Pescara-Juve Stabia o Bocchetti terzino bloccato nel finale di torneo) ma l’ostacolo autentico contro cui il Boemo ha cozzato nella sua carriera è l’orientamento mentale del calcio italiano, il suo approccio difensivistico diffuso come un mantra già nei settori giovanili. Non attaccare, ma difendere la palla. E chi pensa il contrario – e lo stiamo scoprendo con Sarri – viene equiparato a colui che bestemmia in chiesa.

Giovani, difensori

E non è un caso che Zeman preferisca, specie in difesa, lavorare con giovani, se non giovanissimi. Non è infatti vero che Il Muto non lanci difensori: chiedete a Nesta e vi dirà che fu Zeman a bloccarne la cessione in prestito al Sora nell’estate 1994. Neppure due anni dopo si ritrovò pilastro della Nazionale.

Analogamente Marquinhos, prelevato dal Corinthians nell’estate 2012 dalla Roma a diciassette anni e mezzo per farlo giocare nella primavera, fu ceduto a giugno 2013 al PSG per 40 milioni di euro. E non è peregrina l’ipotesi, suffragata dallo stesso Zeman, che destino analogo sarebbe toccato a Romagnoli, coetaneo del brasiliano e destinato, se non fosse stato il Boemo travolto dall’esonero, a terminare la stagione da compagno di reparto del giovane carioca. Viceversa, sono comprensibili le obiettive difficoltà di un difensore esperto a cambiare modo di difendere a trent’anni: mentre un giovane ha la mente meno “ideologizzata”, difficile che un elemento abituato al difendere la palla e al guardare l’uomo possa d’improvviso ritrovarsi una testa completamente nuova. Discorso analogo per certe tipologie di centrocampisti, per tacere dei portieri.

La Rivoluzione richiede coesione

Lavorare bene con Zeman presuppone entrare in sintonia con lui. Società, staff tecnico, vecchi e giovani. Non è facile avere a che fare con un uomo che di compromessi ne accetta pochi così come di intromissioni: se l’argomento principale usato dai suoi detrattori è “Il suo calcio è poco redditizio” è perché non sempre Sdengo è entrato in sintonia con l’ambiente circostante.

Specie nell’ultima esperienza di Roma, dove ha dato la sensazione di non aver percepito bene gli equilibri e gli interessi con cui chi allena una grande squadra deve quotidianamente fare i conti; mentre ha fatto molto bene dove, con persone fidate (da Casillo al ritrovato Peppino Pavone, uno che con la testa di Zeman è un tuttuno e sa i profili che il tecnico cerca) e che lo rendano figura centrale. Perché in fondo anche a lui piace essere coccolato. Intanto, il suo contributo resta ed è pietra miliare. E tutti gli addetti ai lavori lo sanno e ne studiano i contributi.

Mille altre di queste panchine, Sdengo. Con l’augurio d continuare a cucinare piatti degni del miglior chef stellato.

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