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Il sassolese Mariani, cavallo pazzo amante delle sigarette, e la sua unica stagione al Napoli

Giorgio Mariani ha collaborato con il club della sua città prima dell’ascesa dei neroverdi verso il calcio che conta. In un’intervista, disse: «In quale squadra avrei voluto fermarmi? Al Napoli, non parliamone».

Il sassolese Mariani, cavallo pazzo amante delle sigarette, e la sua unica stagione al Napoli

Era uscito dal mondo del calcio che conta in punta di piedi per far ritorno nella sua Sassuolo. Prima per tirare gli ultimi calci ad un pallone e poi come general manager. Lo volle il futuro presidente Squinzi nel 1987/88 quando la Mapei diventò il main sponsor dei neroverdi. Giorgio Mariani, ex ala, quelle di una volta, di Fiorentina, Verona, Napoli, Inter e Cesena, oggi non c’è più. Volentieri lo avremmo intervistato per farci spiegare perché il calcio è così profondamente mutato e perché quando un attaccante non segna sembra Gesù mentre si avvia al calvario o Renzo Tramaglino quando, meditabondo, pensa alla sua Lucia sul lago di Como. Il pensiero allora corre subito ad un altro “esterno”, al volto da puntero triste di Manolo Gabbiadini che ricorda gli attaccanti del Napoli quando, per un gioco di parole molto alla moda, si diceva che “le punte sono….spuntate”.

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L’anno in cui Mariani giocò con gli azzurri, indossando la 11 ma anche la 9, la squadra aveva in attacco, oltre a lui, Damiani, Umile, Canè e Ferradini. Cinque punte che si alternarono per la miseria di 11 reti in totale. In effetti Damiani e Mariani giocavano abbastanza larghi. Convergevano verso l’area avversaria ma erano troppo leggerini per impensierire le difese. Nel mezzo mancava un risolutore. Il Napoli non aveva un vero bomber, uno squarciatore di reti, uno di un certo peso. Proprio come oggi che ci fanno bere la storiella di Mertens ‘falso nueve‘. Mariani, in diverse gare impiegato anche da centravanti, non poteva esserlo. La storia ci ha detto che i suoi migliori campionati li ha fatti da spalla a Boninsegna nell’Inter, mica uno qualunque.

Mariani era di Sassuolo, il posto dove iniziò a tirare calci ad un pallone e dove si parlava di dilettantismo puro, campi polverosi e nessuna mania di grandeur. Da lì lo prelevò la Fiorentina, che, dopo averlo provato e riprovato, non lo fece giocare molto. Il gracilino attaccante aveva bisogno di farsi le ossa. Ecco allora la trafila, Modena, Cosenza ed Ascoli, sempre in prestito fino a quando la Viola non lo riprese e con la squadra toscana si fermò per un triennio contribuendo, da riserva, allo scudetto dei gigliati. Chiuso da Maraschi e Chiarugi, approdò al Verona dove non fece male sentendo la fiducia della società. Mise a segno 6 reti, di cui tre in una sola gara, contro la Sampdoria di Battara.

Il Napoli puntò su di lui, costava poco, aveva un buon sinistro. Sapeva dribblare ed insinuarsi nelle aree avverse ma nel suo dna non c’era il gol. Fu una scommessa. Tre reti in tutto il campionato 72/73. Furono poche per la riconferma, tanto più che Vinicio, il nuovo allenatore, aveva già in mente un duo di attaccanti che doveva venir fuori dal quadrilatero Canè, Clerici, Troja e Braglia. Così quando arrivò la richiesta del Palermo, il Napoli lo cedette. Nell’allora calcio mercato di novembre la svolta. Mariani passò all’Inter dove fece la fortuna di ‘Bonimba’ per due stagioni ma nemmeno coi nerazzurri avrà un matrimonio lungo.

Passò al Cesena (“il Sassuolo degli anni ’70?”) dove raggiunse una insperata e storica qualificazione in Coppa Uefa. Nel periodo in cui giocava in Romagna lo intervistò l’Intrepido e gli chiese: «In quale squadra avrebbe avuto più piacere a fermarsi?». Lui rispose : «Al Napoli. Non parliamone: per me fu un colpo durissimo quando mi congedarono. Speravo proprio di essermi conquistato un posto. Invece no, forse mi ha buggerato il girone di ritorno oppure fu lo zampino di Garonzi che al Napoli mi aveva prestato e che girandomi al Palermo aveva fiutato un migliore affare».

Chiuse col calcio dei ‘ricchi’ col Varese in B prima di tornare al Sassuolo dove smise di giocare a 37 anni. Ma era una squadra degli anni ’80, con uno spirito garibaldino e nulla più. Erano lontani i tempi dell’organizzazione e della programmazione che contraddistingue gli odierni nero verdi. Fu poi direttore sportivo della squadra della sua città. Nel luogo che lo vide crescere con una palla tra i piedi e morire in un letto di ospedale.

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Questo riccioluto mancino arrivò a Napoli con il ‘new deal’ voluto da Ferlaino e Chappella. Dei titolari dell’anno precedente rimasero solo Pogliana, Zurlini, Juliano e Improta. Sbarcarono in riva al Golfo Carmignani, Bruscolotti, Rimbano e Vavassori. Fortificarono la difesa rendendola la seconda del campionato. A centrocampo rientrò il solo Abbondanza. In attacco Damiani, Ferradini e Mariani ebbero il compito più difficile. A loro toccò non far rimpiangere Altafini e Sormani. Andò come andò, gli anni di piombo sarebbero arrivati di lì a poco e la meglio gioventù portava ancora i pantaloni a zampa di elefante, gli stivaletti col tacco, le camicie sbottonate ed i capelli lunghi. Quelli che caratterizzavano anche il viso da “borgataro romano” di Giorgio che avremmo visto volentieri in un film di Pasolini.

Il San Paolo gli portò bene. Tutte e tre le reti le segnò a Fuorigrotta, curiosamente in tre partite finite sempre 1 a 1. Due con le torinesi ed una col Bologna. In verità fece anche due gol in Coppa Italia: uno ad agosto nel 3-0 contro il Brindisi ed un altro a Bergamo per un 1-1 con l’Atalanta. Fu il secondo “cavallo pazzo” (dopo Chiarugi), diceva di fumare più di un pacchetto di sigarette al giorno (per questo motivo fu fatto fuori da Viciani al Palermo) ed era un tipo fumantino.

Da giocatore non fu mai uno tenero e se c’era da litigare non si tirava certo indietro. Il suo temperamento lo portò anche a gesti plateali in campo. Memorabile anche qualche ‘vaffa’ con i signorotti dell’Inter, nella lista anche Mazzola e Boninsegna. Nello stesso tempo, però, aveva un cuore grande così. Si dice, infatti, che in casa, con quattro figlie femmine che lo ‘domavano’, era un pezzo di pane.

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Erano un migliaio quelli che lo vollero salutare per l’ultima volta l’8 dicembre di 5 anni fa, nel Duomo di San Giorgio nella città emiliana. In prima fila, con gli occhi umidi, Angelo Rimbano e Roberto Boninsegna. Con Bonimba non si salutava da tempo immemore. Sulla bara i vessilli della Fiorentina e del Sassuolo, forse un segno del destino, chissà.

Si è infatti sospettato che la lunga malattia che lo portò alla morte a 65 anni fu anch’essa generata dalla maledizione che colpì i giocatori della Viola degli anni ’70. Una lista divenuta maledettamente lunga col tempo. Prima Saltutti, poi Ferrante, Longoni e Mattolini. Galdiolo (ha una forma di SLA, la demenza frontale temporale) e Amarildo (tumore alla gola) non vivono più bene, altri casi, anche di giovani della Primavera della Fiorentina, sono stati messi a tacere. Mariani adesso gioca in Paradiso, fa da spalla a Saltutti e negli allenamenti del giovedì è attento a non incocciare la stazza di Ferrante. Sapete, lui è piccoletto e vuole continuare a giocare. Per poi fare ancora qualche boccata con le ‘bionde’.

 

Foto tratte dall’archivio Morgera.
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