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Perché De Laurentiis non è Donald Trump (e quindi non vince)

Non ha il coraggio delle proprie idee, è alla perenne ricerca del consenso. Non avrebbe mai tirato dritto come Trump di fronte alle defezioni nel suo partito.

Perché De Laurentiis non è Donald Trump (e quindi non vince)
De Laurentiis in versione Trump

Ci avevo pensato subito a scrivere quest’articolo, poi ho tentennato fin quando un amico non mi ha girato il fotomontaggio che guardate. E allora ho pensato che fosse giusto procedere. “Perché Aurelio De Laurentiis non è Donald Trump” e, di conseguenza, perché Aurelio De Laurentiis non solo non diventerà mai presidente degli Stati Uniti d’America (pour cause) ma non farà mai saltare il banco. Sì, in qualche modo è una critica al presidente del Napoli – proprio da parte del Napolista, il sito al servizio del padrone – ma fino a un certo punto. Perché il nocciolo è che De Laurentiis non vince o comunque fin qui non ha mai vinto proprio perché – inconsciamente o consciamente – asseconda sempre gli umori della piazza, è alla perenne e vana ricerca del consenso. Fa finta di fregarsene – alla Juncker o alla Benito, fate voi – ma in realtà ha l’orecchio sempre teso. Non ha il folle coraggio delle proprie idee. Non è realmente convinto delle sue ragioni.  Non dorme col libro di Erasmo da Rotterdam sul comodino. Non sfida mai tutto e tutti e quindi rischia di andare incontro al disastro. Perché, diciamolo, in determinate condizioni – diciamo pure dati causa e pretesto – solo chi sfida la polvere poi potrà alzare le braccia in segno di vittoria.

Aurelio De Laurentiis non sfida mai realmente il popolo. Finge di tirare dritto. In realtà lo subisce. Non traccia la strada e va avanti, perché ha la certezza di stare dalla parte della ragione. È in fin dei conti un ondivago. Zigzaga alla ricerca del consenso, suo vero tallone d’achille. Sì, in questo percorso, è un imprenditore che porta a casa utili. Ma su quest’argomento qui non ci soffermiamo. Lo lasciamo ai seguaci del papponismo. È la normalità per chi ha sposato l’economia di mercato, o quanto meno – pur senza sposarla – ne ha preso atto dell’esistenza.

Quando diede Benitez in pasto al popolo

Dispiace dirlo, ma Aurelio De Laurentiis non avrebbe mai tirato dritto nei giorni in cui uno dopo l’altro ipocriti e influenti esponenti del partito repubblicano si sono sfilati dal carro di Trump e Donald sembrava destinato a una delle più cocenti sconfitte della storia degli Stati Uniti d’America. Avrebbe cercato il compromesso, De Laurentiis. Come fece quella sera, dopo Napoli-Lazio, quando offrì lo scalpo di Benitez alla folla affamata e in un sol boccone gettò nell’arena sia Rafa sia Higuain: città rapace, tutti in ritiro. Il popolo si saziò, lui finalmente potè uscire per strada in tranquillità. Ma la sua idea, l’idea che gli aveva suggerito di ingaggiare Rafa e sposare il processo di internazionalizzazione – o presunta tale – del Napoli era stato gettato in mare. Rinunciare alla propria idea per salvare se stesso. È la differenza che un tempo spiegava sempre Ciriaco De Mita tra la gestione, l’amministrazione e il fare politica, perché «il compito della politica è creare politica», il resta è roba per burocrati.

I tifosi ne percepiscono la debolezza

E la politica, nel senso demitiano del termine (non vogliamo scomodare Platone), è cosa ben diversa dalla tattica, dal passaggio di squadra, dall’opportunismo, dalla punzecchiatura senza avere il coraggio fino in fondo di esporsi (ogni riferimento alle recenti scaramucce con Sarri non sono puramente casuali). È il perseguimento di una idea. Ma come? Siamo sul Napolista? Sì, sì, siete sul Napolista. Il discorso del Napolista è diverso. In relazione a quanto questa squadra ha mai offerto (a parte Maradona bla bla bla), il Napoli di Aurelio De Laurentiis è il Brasile di Tostao, Carlos Alberto e quello nero col numero dieci. È un ragionamento dedicato a De Laurentiis, non al Napoli o ai tifosi del Napoli. I tifosi del Napoli dovrebbero idolatrarlo a prescindere. E invece in qualche modo lo ricattano. Moralmente, sentimentalmente. Ne percepiscono la debolezza. Sono consapevoli di avere un’arma. Aurelio De Laurentiis rincorre un’ombra. Mai la raggiungerà. Non sa, non vuole sapere, fa finta di non sapere, si convince che non gli interessa che sarà l’ombra a rincorrere lui se dovesse imboccare una direzione e tirare dritto fino alla morte. “Devi rischiare la notte, il vino e la malinconia, la solitudine e le valigie di un amore che vola via” se vogliamo rimanere alle canzonette; Celine ha espresso questo concetto in maniera più seducente. Insomma galleggia, sta in superficie. Ci sta da dio, eh, ma la carne viva non la raggiunge mai. È una vita, se vogliamo, più modesta. Per Napoli, calcisticamente, basta e ne avanza tantissimo, per entrare nella storia siamo lontanucci.

“Compagno, ‘o popolo è ‘na merda”

Un discorso che potrebbe essere capovolto, ovviamente. Un popolo illuminato potrebbe trovare il modo per mostrare la strada al suo re. Ma, francamente, è una ipotesi irrealistica. “Compagno, ’o popolo è ‘na merda”, ripete spesso “un napolista dentro” ricordando la frase detta da un compagno ai tempi del fu Pci, ma ‘o popolo sa anche riconoscere il leader, è una questione di odore. Sa piegarsi. Poi, ovviamente, tradisce, ti accoltella. Donald Trump non ha derogato dalla sua idea, ha tirato dritto – eppure gliene hanno dette e gliene diranno. È partito con la sua idea e non l’ha cambiata per convenienza. Il papponismo esiste perché è alimentato dal pappone, altrimenti non ci sarebbe. Quanti communisti così ho visto elogiare il male Silvio Berlusconi prima e dopo il suo ingresso in politica. L’ombra sa riconoscere il padrone.

Sia chiaro, Aurelio De Laurentiis è un grande presidente del Napoli. Difficilmente ne avremo uno migliore di lui. Ma in fondo anche lui ha paura come i tifosi. Questo davvero li e ci unisce. E magari fosse una questione di soldi.

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