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Dalle zoccole ai chiattilli, nella Napoli di Antonella Cilento

Il Bestiario napoletano prova a raccogliere il testimone disperso della Napoli letteraria

Dalle zoccole ai chiattilli, nella Napoli di Antonella Cilento

«Se siete lettori di fiabe lo sapete: ogni luogo magico, sin dall’antichità, è abitato da bestie […] Napoli che è luogo magico per eccellenza […] non può non avere un suo Bestiario». Si occupa di redigere questa collezione Antonella Cilento nel suo penultimo libro, intitolato appunto, Bestiario Napoletano [Laterza, 18 euro]. Il volume raccoglie gran parte degli articoli apparsi nelle pagine culturali de Il Mattino, che riuniti in unico testo restituiscono una piacevole visione d’insieme della nostra città, in cui è possibile essere guidati dal Caronte partenopeo, il “parcheggiatore abusivo”,  la cui «gradatio è sempre questa: capo sono tutti i potenziali clienti, chiunque si avvicini per parcheggiare o ne simuli l’intenzione, dottori si è in virtù della cilindrata, il pagamento abbondante e regolare determina la promozione a maestro».

C’è poi la “zoccola”, raccontata da Cervantes, termine con il quale generalmente si definisce chi pratica il mestiere più antico del mondo, che «necessitava di rumorosi calzari per segnalarsi di notte ai clienti nella città buia e di giorno perché la città era già bolgia sovraffollata», il fatto poi che fossero così tante spinse molti a paragonarle a quei topi che infestavano fogne ed acquedotti. In questi stessi territori è possibile incontrare anche altre suggestive specie animali come i “chiattilli”, ovvero le piattole, con cui s’indicano «i figli dei veri benestanti, sfaccendati e schiavi dell’aperitivo» o i “cafardi” – dal termine francese cafard, scarafaggio – ovvero i tamarri, «nuovi adepti della firma, del capo griffato, veglianti dell’aperitivo e del fast food appena nato», molto lontani dai gagà di Piazza dei Martiri.

Nei dintorni – tra “i baretti” di Chiaia ed il bar Cimmino – abbondano “le pèrete” ovvero «l’aria sfuggita agli intestini, al femminile, donne prive di valore», che ha però anche una variante, “la pèrete senza botta” cioè «una vanesia che si finge intellettuale […] priva però anche del suono che la rende rilevante». Le pèrete sono spesso blandite da un altro tipo di bestia, “il fareniello”, «il nome lo prendono dal celeberrimo cantante castrato Farinelli, ma sono in realtà corteggiatori pro forma, vacui chiacchieroni […] Casanova poco credibili». Per finire – ma l’elenco sarebbe ancora lungo – al “chiachiello”, termine terribilmente affascinante, che indicare «talvolta gli scemi che si atteggiano» e sulla cui origine non ci sono certezze: c’è chi lo fa risalire allo spagnolo cualquier [qualunque] nel senso di scarsa importanza, mentre altri lo accostano blakikos [vigliacco in greco].

Al di là di queste tipologie antropologiche abitanti la città – descritte in maniera ironica e dettagliata – il merito della Cilento è quello di restituirci, e così preservare attraverso il racconto, diverse tradizioni come ad esempio i venditori di «bror e’purp» – il medesimo polipo che compare «nell’iconografia del fonte battesimale più antico del mondo, San Giovanni in Fonte, dentro l’antica basilica di Santa Restituta, a sua volta contenuta nel Duomo di Napoli» – piatto tipico della cucina napoletana di strada, ormai quasi estinto a causa delle cervellotiche norme dell’Unione Europea, ma che prova resistere con alcuni stoici presidi tra via Fioria e Borgo Sant’Antonio.

Allo stesso modo rischiano di scomparire storici mestieri come quello del “solachianiello” [ovvero il «risuolatore di pianelle, scarpe femminili dal tacco basso] un ciabattino non specializzato, da non confondere con lo “scarparo” [colui che è in grado di produrre materialmente le scarpe]; così com’è opportuno distinguere tra acquafrescaio girovago e acquafrescaio murato «ovvero chi vendeva l’acqua girando con un carretto e chi invece ha un piccolo negozio con il banco di marmo rivolto alla strada», a quest’ultimo gruppo appartiene un superstite della professione, Claudio Di Dato che in via Chiaia 154 continua a mantenere in vita il suo spazio, l’Oasi Chiaia, vendendo però «principalmente spremute d’arancia e limone».

Napoli è anche la città dove apparentemente sacro e profano si mischiano, rendendo così possibile far convivere a pochi metri di distanza – in uno speciale sincretismo partenopeo –  “femminielli” a cui chiedere «fortuna, i numeri a lotto, la divinazione» con il santuario di santa Maria Francesca delle Cinque Piaghe – in vico Tre Re numero 13 – «prima donna canonizzata a Napoli e compatrona della città […] a cui ci si rivolgeva per miracoli legati alla sterilità ed al parto».

Quello che può essere segno di ambiguità e contraddizione emerge come tratto caratteristico ed inestinguibile della città, «segno che le identità a Napoli sono da sempre calcate ed insieme sfumate». Il pregio della Cilento nelle oltre duecento pagine del libro, senza pretenziosità, è quello di provare a raccogliere il testimone disperso di quella Napoli letteraria affondando le mani in quel ventre fatto di storie antiche e popolari, presenti e passate.

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