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Napoli vista e pensata dalla terrazza di Castel Sant’Elmo

Il libro di Antonio Pascale “Non scendete a Napoli” è un modo di parlare della città senza ricorrere a mandolini, pizza e putipù

Napoli vista e pensata dalla terrazza di Castel Sant’Elmo

«Esiste una città più raccontata di Napoli? Esiste una città altrettanto presente nell’immaginario collettivo, con il suo bagaglio di luoghi comuni secolari – e non sempre lusinghieri?».

Sono questi gli interrogativi con cui si apre l’ultimo libro di Antonio Pascale “Non scendete a Napoli. Controguida appassionata alla città” [Rizzoli, 15 euro] e molto probabilmente – senza eccessi di campanilismo – la risposta è no; sul Napolista ci siamo già occupati spesso della questione, sia in passato con il reportage del mensile spagnolo Panenka, sia in tempi più recenti con la cessione di Higuaín alla Juventus.

L’autore – nato a Caserta e poi trapiantato a Roma – sin dalle prime pagine del testo, attraverso l’arma dell’ironia, sconsiglia di recarsi in una città così tanto raccontata da rendere quasi superfluo visitarla, con un «immaginario prepotente che non lascia scampo», una città a cui Pasolini nelle sue Lettere luterane [Einaudi] ha dedicato un trattatello pedagogico-filosofico [Gennariello] dove l’imbroglio è considerato «uno scambio di sapere», una città nella quale si giustificano cedimenti del manto stradale con la “porosità” congenita, una metafora di Walter Benjamin illustrata in Immagini di città [Einaudi] quasi un secolo fa e rilanciata nel 1992 da un testo di interviste curato da Claudio Velardi – La Città porosa [Cronopio] appunto – dove «filosofi [Cacciari], registi [Martone] ed altri discutevano di categorie – sociologiche, urbanistiche, antropologiche, facendole rimare con la porosità […] Dire Napoli significava declinare concetti in ragione della sua porosità: alto e basso, friabile, verticale, orizzontale. Napoli, dunque, era accogliente, profonda, superficiale, cangiante». Certo non solo Napoli lo è, ma qui c’è una «capacità di elaborare continue metafore a partire dal tufo».

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Napoli vien sempre dipinta e raccontata come una città dal “un cuore grande”, “diversa”, “speciale” – certo su quest’ultimo punto è d’obbligo rimandarvi a quel tale che tanti mal di pancia ha causato – ed in questa eccezionalità mortifera e menzognera si crogiola. Un territorio che, almeno quando si culla nel più stantio luogocomunismo, sembra aver paura di scommettere sul futuro, preferendo «scoraggiare l’analisi del bilancio e semplificare la lettura: il futuro è godersi il presente, mica investire, programmare ed analizzare». A sostegno di questa tesi, Pascale cita la celebre scena del professore e la macchinetta del caffè in Scusate il ritardo. Il professore con la macchinetta per una sola persona – senza speranza e autocondannato alla solitudine – «rappresentava, allora, una vecchia idea di Napoli, una città culturalmente incapace di cambiare […] il professore non investe perché, in fondo, non crede nel futuro».

In quelle stessa pagine l’autore tesse l’elogio del regista di quel capolavoro, Massimo Troisi, il quale ha incarnato e rappresentato con il suo affanno e la sua balbuzie un cambio di paradigma, in quanto «l’espressione culturale ed artistica di Troisi non è più sottomessa alla forza dell’immaginario meridionale, ma al contrario rappresenta anche lo sforzo necessario per liberarsi dalle catene della tipicità. E naturalmente per lo sforzo spreca energie, va fuori strada, s’inceppa, riparte con brio per poi interrompersi, insomma, la battuta finale è il risultato non di una simpatia innata e di vocazioni millenarie ma di una ricerca, costante e inquieta». Un’idea che scompagina schemi precostituiti ed altera i luoghi comuni, sedimentati ma non inscalfibili. In quest’ottica, una recente dimostrazione ci è stata data da uno scrittore da poco scomparso – Ermanno Rea – il quale in un’intervista apparsa su La Repubblica circa un anno fa, alla domanda finale di Antonio Gnoli [«Non ti sembra essere un ossimoro essere napoletano e comunista»] , magistralmente rispose: «C’è un doppio pregiudizio in quel che dici: sul napoletano e sul comunismo. L’idea che sia impensabile un comunismo allegro, umano, garbato, perfino “leggero”, fa il paio con l’idea che non possa esistere in natura il napoletano silenzioso, ordinato, malinconico, legalitario fino all’ossessione, eccetera. Il fatto è che certi luoghi comuni sicuramente facilitano la vita, però non la spiegano».

C’è chi invece si accontenta e continua a spiegarla, magari è quella stessa parte «di popolazione napoletana che ha deciso, metaforicamente almeno, di non scendere da Castel Sant’Elmo» o gli emigranti che ritornano solo per andare nelle isole, «questa parte della popolazione ha rinunciato a discutere della città». La terrazza di Castel Sant’Elmo da cui Pascale consiglia d’iniziare e contemporaneamente finire il viaggio a Napoli – perché da lì tutto è semplice, tutto si vede e non c’è il rischio di contaminarsi – è allo stesso tempo una metafora sia, di quella torre d’avorio in cui sono rinchiusi intellettuali, borghesia e classe dirigente locale che di tanto in tanto [basta sfogliare i giornali napoletani delle ultime due settimane] finiscono sul banco degli imputati con l’accusa d’ignavia cittadina, e sia un artificio retorico con cui l’autore in realtà racconta le bellezze della città di Napoli.

Il testo di Pascale nelle oltre duecento pagine del libro con semplicità e scorrevolezza offre uno spaccato della città provocatorio ed intelligente, a dimostrazione che si può raccontare e parlare di Napoli senza ricorrere necessariamente a pizza, putitù e mandolino.

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