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Carlo D’Angiò e la Napoli che sparigliava

Mauro Pagani, l’altra metà di “Creuza de mà” di Fabrizio De Andrè, citò più volte D’Angiò ed Eugenio Bennato quale fonte d’ispirazione.

Carlo D’Angiò e la Napoli che sparigliava

E si torna a riflettere a Napoli, dopo Pino Daniele, su un gusto mediterraneo per l’unità di sole, terra e mare, sempre in bilico tra due mondi, quello dell’identità, del recupero delle radici di una terra, già esplorate nel lavoro con Roberto De Simone, e quello della contaminazione, la cui voglia dovette spingere i due giovani Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò a lasciarsi alle spalle un’esperienza unica come quella della Nuova Compagnia di Canto Popolare per inseguire un’idea nuova del folklore.

Perché quel linguaggio contadino era sopravvissuto alla fine di una civiltà ed era in qualche modo approdato alla nuova realtà urbana nelle feste dei movimenti giovanili, col vivo e crescente interesse che una generazione manifestava da un po’ per quegli idiomi del passato, perciò da riattualizzare più di quanto si fosse già fatto col maestro sciamano.

Così, se la NCCP aveva posto le basi del folk revival, la nuova sigla “Musicanova” fungeva da veicolo espressivo per due giovani intellettuali curiosi, non proprio “rinnegati” come il fratello del primo, quell’Edoardo cresciuto a pane e rock and roll, ma meno ossequiosi della tradizione, tanto è vero che il virtuoso polistrumentista Mauro Pagani, l’altra metà di “Creuza de mà” di Fabrizio De Andrè, ebbe a citarli più di una volta quale fonte d’ispirazione per quel viaggio incredibile che da Genova, con una “mulattiera di mare”, aveva condotto ad uno sguardo unico e fino ad oggi insuperato sul mediterraneo come flusso continuo di immagini ed emozioni, odori e suoni, raccolti in quel caso da Gibilterra fino al Bosforo.

Fu dopo la prima metà degli anni ’70 che, coevamente alla formulazione dell’esterofilo “Napoli jazz rock sound” di James Senese e compagni alla corte di Pino Daniele, Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò mettevano a punto il loro pazzesco collettivo arruolando Toni Esposito, che aveva già prestato le sue percussioni, tra gli altri, al geniale sperimentatore Luciano Cilio e ad un giovanissimo intrepido Alan Sorrenti, accentuando la mediterraneità delle loro opere, ma anche la voce unica e passionale di Teresa De Sio, i fiati di Robert Fix e, ancora, Alfio Antico, Pippo Cerciello, Gigi De Rienzo e tanti altri.

Molto prima della consapevolezza che spinse l’autore di Marinella e l’ex PFM a mettersi in gioco spianando le strade dell’immaginario sonoro che si riflette sulle acque del Mare Nostrum. Ma prima perfino della svolta etnica di Peter Gabriel e dei lavori world di David Byrne. Prima.

Non narriamo altro di questa Napoli che sparigliava tanto quanto quella di Massimo Troisi o di Nicola Pugliese, storia di autentici pionieri, in quegli anni in compagnia nella nostra penisola solo di pochissimi altri (gli egualmente straordinari e solo apparentemente più innovativi Carnascialia ed Aktuala), lasciamo parlare i loro superbi album: «Garofano d’ammore» (1976),  «Musicanova» (’78), «Quanno turnammo a nascere» (1979) e il più pop «Festa festa» (1981, con la produzione di Shel Shapiro) oltre alla colonna sonora «Brigante se more» (1980).

Mettiamo la puntina, ad esempio, sul solco di “Siente mò che t’aggia di”, dal secondo album del gruppo: il tamburello di Esposito ricama, la ciaramella di Fix ipnotizza, su tutto però si staglia la voce dolente di D’Angiò che porta il blues del Mississippi sotto il Garigliano, proponendo una commistione diversa da quella dei Daniele, di Napoli Centrale, ecc…, ma a pensarci altrettanto ardita e riuscita.

Il progetto durò un pugno di anni e poco più, poi D’Angiò lasciò la musica per fare l’ingegnere, tornando a ricalcare la scena solo nel 2011, in occasione di un nuovo album, il suo unico da solista.

Di recente era stato coinvolto dagli Almamegretta in “Ennenne” (la spagnoleggiante “Musica popolare”, in duetto con Raiz) – e lo abbiamo percepito come un doveroso tributo – prima di precederci “a nu munno addò a paura nun c’è”, come recitava la sua splendida “Nannarè”.

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