Signore e signori benvenuti all’ormai consueto appuntamento con la Biennale. Non già quella d’arte contemporanea di Venezia, ormai da un po’ spenta e smarritasi, ma quella vivace e tradizionale attorno alla pubblica disquisizione sulla legittimità del tifo per la nazionale italiana di calcio.
Lasciatemi dire che in questo agone siamo tutti fratelli, perché tutti siamo stati, almeno un anno, almeno un mese, almeno un giorno della nostra vita, anti-italiani. Perché la storia la fanno i vinti, perché noi avevamo quella benedetta Napoli-Portici che Garibaldi si portò via, perché il Paese non ci rappresenta, perché il potere esclude noi e i nostri simili con trame e strategie proditorie, perché nel ’90 fischiarono Maradona, perché abbiamo un vicino juventino. Tutti abbiamo una sacra causa da difendere. Ciascuno di noi ha sperato almeno una volta di vedere gli azzurri annegare in quel nostro sentimento livoroso che, comunque la si metta, è il puntiglio di una insoddisfazione. Non è la fine del mondo. Ma tant’è.
D’altra parte, religiosi o anticlericali, noi italiani siamo una comunità di uomini e donne introdotti già in fasce al tema dominante della nostra esistenza. Il Bene. “Libera questo bambino dal peccato originale e consacralo tempio della tua gloria” recita la liturgia che il voluminoso Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica prescrive ai neonati durante l’esorcismo battesimale. E poco importa che si sia credenti o atei. Il battesimo infatti è tecnicamente solo il primo di quella lunga serie di esorcismi che riceveremo comunque in vita, e cui decideremo più o meno lucidamente di sottoporci; uno dei tanti che invochi in solennità quanto continueremo a chiedere per tutta l’esistenza, tra alti e bassi, davanti ai mille specchi che ci ritroveremo dinanzi; la preghiera che qualcuno estirpi finalmente il male che si è impossessato di noi e ci corrompe e lo rigetti lontano nell’inferno. Noi siamo infatti una nazione di bravi uaglioni traviati dalle cattive amicizie. (O dalla Casta).
È uno schema semplice, che con un po’ di marketing ha mosso e muove da un paio di migliaia di anni le anime delle città, nelle loro case e nelle loro cattedrali.
Poi, fortunatamente, la Grazia ci ha donato il calcio. Il vero carnevale. La sovversione dei valori e la sincera blasfemia dei nostri giorni. E la complessità si ricompone e si riprende la sua rivincita. Perché la nostra bestemmia è Conte che ora indossa i nostri colori – ci piaccia o no -, Bonucci che fa un lancio come un Pirlo imboscato; è Tavecchio che questa macchina sgangherata ha contribuito a metterla su tra mille peccaminose bucce di banana. Funziona tutto a metà o per un quarto, funziona al contrario, fa anche schifo, ma il tutto poi incontra undici che ci mettono cuore e attributi, per un qualche insondabile motivo, e la palla rotola, lei sì Vera Dea, Dioniso redivivo alla faccia dei monoteismi, e ci costringe ad amare i nostri nemici. Una impresa che non riesce a San Gennaro da secoli, ma in cui da sempre riesce il cranio di Materazzi. Oggi persino Chiellini può riuscirvi, grande sacerdote.
La Nazionale serve a non sentirci vittime, a rammentarci che la coerenza è un valore molto sopravvalutato da esseri come noi abitati da miriadi di demoni diversi e opposti, a riscoprire la nostra parte cinicamente carnefice, il desiderio taciuto per un anno di avere anche noi un bel figlio di buona donna in società, magari che ammazzi e scompaia, come il Moggi napoletano scudettato e poi assunto in cielo nella sacra triade bianconera del Male, secondo le scritture. Questa Italia ci rappresenta, cari amici italiani. Siamo noi. Siamo assurdi, contorti, senza speranze eppure talvolta vincenti, mammoni e coraggiosi, travolti dai nostri limiti e sul podio solo quando ad essi sappiamo parlare senza ipocrisie, in un battesimo alla rovescia.
Vieni, Dea Palla, e salvaci dal Bene.