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Lo Cicero, il rugby e gli episodi controversi: il calcio non è ‘più malato’, ma solo maggiormente esposto

Lo Cicero, il rugby e gli episodi controversi: il calcio non è ‘più malato’, ma solo maggiormente esposto

Da qualche tempo, qualcuno ci avrà fatto caso, si è tornati a parlare di Andrea Lo Cicero. In questi giorni, in particolare, l’ex rugbista è salito agli onori della cronaca perché avrebbe aggredito una troupe di La7, danneggiandone l’attrezzatura. Giornalista e operatore lo accusano; lui nega l’addebito; intanto fioccano denunce incrociate. Vediamo come andrà a finire.

Prima ancora Lo Cicero era tornato sotto i riflettori (non quelli di Sky, dove è di casa) per un paio di dichiarazioni infelici ripescate dal suo recente passato. In un fuorionda dello scorso febbraio apostrofa come “zingari di merda” i passeggeri di un auto in transito che disturba un suo stand up televisivo. Nell’autobiografia del 2007, ripescata in vista dei suoi impegni politici (dovrebbe far parte della giunta Raggi a Roma), definisce invece “frocetti” i rugbisti che usano paradenti e protezioni. Ecco, su un “frocio” detto da un uomo di calcio, i napolisti ricorderanno bene, a gennaio si è montata una campagna stampa durata giorni. Si sono lette molte analisi buone per tutte le stagioni sulla responsabilità sociale dei professionisti del pallone (“i bambini vi guardano!”) e molto politichese.

A questo giro, malgrado la maleducazione (prendiamola alla lontana) verso i giornalisti e il retaggio xeno-omofobico, la questione Lo Cicero rimane sottotraccia, aderendo al politico nel senso più letterale (senza nomina al Campidoglio in vista, non saremmo arrivati a questo punto). Poco più. Eppure Lo Cicero è espressione non di uno sport qualsiasi, bensì dello sport (considerato) etico per eccellenza: il rugby. Quello della correttezza in campo, del terzo tempo, degli avversari che bevono la birra insieme prima e dopo la partita. Quello in Italia da sempre preso a modello per l’agonismo così ben codificato da non lasciar tracimare violenza in altre forme se non in quella del campo. Quello da sempre usato come contraltare per evidenziare la volgarità del football. Anche per le questioni più banali: negli anni 90 si polemizzava sul fatto che i giocatori della Nazionale di calcio non cantavano l’inno di Mameli, mentre quelli di rugby lo intonavano a pieni polmoni. Un dualismo articolato su banalità di questo tipo.

Lo Cicero, poi, non è un carneade del rugby italiano. Detto “il barone”, vanta 13 anni di militanza e 103 presenze con la divisa dell’Italia, un titolo nazionale con il Rugby Roma e un passaggio (a dire il vero non memorabile) nel campionato francese, uno dei più prestigiosi del continente. Insomma, un alfiere di questo sport, non uno qualsiasi. Però, dopo l’esuberanza del barone, niente: sul nesso tra rugby, bontà d’animo dei suoi esponenti e rettitudine delle prossime generazioni non si legge niente. E qui arriviamo al punto. Non ci rammarichiamo del fatto che i quotidiani sportivi del Paese non abbiano dedicato editoriali in prima alla questione. Ci auguriamo, però, di leggerne di meno in futuro per casi analoghi che arrivano dall’universo del pallone. La prossima volta che un calciatore si renderà protagonista di un episodio riprovevole, prima di lasciarvi andare al riflesso pavloviano del biasimo pubblico e, soprattutto, della condanna del football come movimento “malato”, pensateci.

L’appello è rivolto a voi tifosi, perché la massa maggiore di moralismi non arriva dalle massaie di Voghera che del football non si interessano, ma da quel pubblico di aficionados che invece al pallone ci pensa ogni domenica. Il calcio non è ontologicamente peggiore di altri sport: è semplicemente più in vista, perché maggioritario. Ma non per questo si può pretendere che siano proprio gli iscritti alla Figc a farsi carico dell’opera di educazione civica di tesserati e spettatori insieme. A parte il fatto che dovremmo metterci d’accordo sulla reale capacità degli sport popolari – presi come monoliti e non come esperienze complesse da analizzare caso per caso – di “migliorare” i propri adepti (Mike Tyson grazie al pugilato è diventato una persona più bella di quella che sarebbe stata rimanendo uno scugnizzo di Brooklyn?), dobbiamo accettare un’ovvietà. Lo sport professionistico lavora sul materiale umano che gli offre la società. Assorbe e proietta. Se il livello è lontano dall’optimum, non ce la si può prendere con la disciplina sportiva.

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