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Il calcio come fenomeno sociale: la merce estetica e la differenza tra Beckenbauer e don Diego Maradona

Il calcio come fenomeno sociale: la merce estetica e la differenza tra Beckenbauer e don Diego Maradona

Parliamo di pallone – del gioco del calcio, insomma – e sgombriamo prima di tutto il campo della discussione da tutto ciò che non c’entra. Come se prima di una partitella fra amici su uno sterrato, ripulissimo il pezzo di terra che abbiamo eletto a campo di gioco da tutto ciò che è superfluo, o fastidioso: bottiglie vuote, cartacce, lattine…

Quindi lasciamoci alle spalle tutte le polemiche e le finte discussioni del tipo: “A me il calcio non piace perché i tifosi fanno a botte”. Oppure: “Odio il calcio perché ci girano troppi soldi…”, “I calciatori sono bamboccioni viziati…” “… Perché Maradona si drogava!”. Insomma tutto ciò che non ha a che fare col gioco in sé.

D’altra parte, giusto per chiudere l’argomento, delle due l’una: o questa affermazioni, sentite migliaia di volte, vengono da chi non conosce il gioco, o lo conosce e non gli piace – eventualità del tutto legittima, che non richiede giustificazioni –, oppure il calcio gli piace pure, e costui si priva di un piacere per motivi non pertinenti – opzione altrettanto legittima, ma quanto meno bizzarra.

Allora, veniamo a noi: anche se ad alcuni non piace, il football piace a milioni di persone in tutto il mondo. Forse non è lo sport più praticato nel mondo, ma è quello più seguito sul pianeta (Dal Lago, 1990, p. 12). Specialmente da quando in gioco sono entrate Africa e Asia. Un motivo ci sarà. Forse più d’uno. È interessante ricercarli? Crediamo di sì, perché se un fenomeno spettacolare, estetico, e quindi culturale coinvolge un pubblico così ampio, una ragione ci deve essere. Anzi, più d’una. Ragioni presumibilmente connesse al fenomeno in sé: come funziona il gioco; e alla dimensione simbolica che assume.

Prima di tutto, allora, il gioco (avvertendo che useremo indifferentemente i termini gioco sport considerandoli, in questo contesto, sinonimi). Senza andare a cercare origini nobili, nell’antichità o nel Rinascimento fiorentino, accettiamo il fatto che il calcio in senso moderno, come peraltro tutti gli altri sport come li intendiamo oggi, nascono e si diffondono durante l’Ottocento grazie al diffondersi nella borghesia e nelle classi popolari delle pratiche sportive fino ad allora appannaggio delle aristocrazie (Cfr. Pivato, 1992, pp. 19 e segg.).

Naturalmente con delle differenze: se alcuni sport implicavano l’uso di attrezzi specifici e campi particolarmente dedicati, come le racchette e la rete per il tennis, sci, bastoncini e campi innevati per lo sci, cavalli e bastoni per il polo, e così via, tutto ciò per il football (e in fondo anche per il suo parente più stretto, il rugby) non era e non è necessario: bastano quattro sassi o bastoni per delimitare le porte, uno spiazzo più o meno pianeggiante e sgombro, e – naturalmente – un pallone (che in casi estremi può essere sostituito con una palla di stracci – o con un’arancia, ma questa è un’altra storia…).

Un altro argomento preliminare è proprio questo: il pallone è l’attrezzo del calcio? No, il pallone non è un attrezzo: nel senso che non è una protesi, come lo sono la mazza da baseball, gli sci, i pattini da ghiaccio dell’hockey su ghiaccio, l’asta nel salto con l’asta, e tutti gli altri artefatti che servono a potenziare le capacità del corpo umano nei singoli sport. In fondo, il pallone è la posta in gioco: bisogna controllarlo, e infilarlo il più volte possibile – almeno una in più dell’avversario – in quello spazio delimitato da due oggetti (pietre, pali, mucchi di abiti) che viene difeso dalla squadra avversaria. O forse, meglio ancora, proprio per la difficoltà di controllare la palla e mantenerne il possesso, un feticcio, un Graal

Questo elemento diventa una prima specificità del calcio rispetto ad altri giochi. Certo, ci sono altri sport con la palla: pallavolo, basket, lo stesso rugby. Ma il calcio ha, dal punto di vista attuale, fenomenico, una caratteristica in più, che lo rende diverso dagli sport parenti: è difficilissimo raggiungere il risultato voluto. Basta confrontare i punteggi finali medi dei giochi simili. Basket e rugby, ad esempio: anche questi sono sport a tempo, nel senso che sono divisi in tempi di una certa durata. Ma i loro punteggi medi non sono neanche paragonabili con quelli del calcio, in cui lo 0 – 0 finale è comunissimo e legittimo. Il che implica una profonda difficoltà intrinseca nel fare punti. E la difficoltà porta fascino… e conseguente piacere, a differenza di altri sport. Prendiamo la pallamano: è come il calcio, ma si gioca con le mani. È interessante, però i punteggi sono simili a quelli del basket, 29 a 28 per esempio. Ci si chiede quindi di entusiasmarci ventinove volte a partita, cosa che alla lunga, anche per il pubblico più appassionato risulta stancante” (Dimitrijevi?, 2000, p. 44-45). E se vogliamo essere esaustivi in questa parte della discussione, aggiungiamo che anche il confronto con la pallavolo ci indica un’altra differenza strutturale: la pallavolo (che Dimitrijevic chiama pallamano) non ha un tempo fisso. Fatto un certo numero di punti, ogni set (di una serie di tre o cinque) si chiuderà solo quando ci saranno almeno due punti di distacco fra le due squadre – anche fino allo sfinimento, eventualmente, in una versione più radicale delle maratone di ballo ricordate in, per esempio, Non si uccidono così anche i cavalli? (Pollack, 1969).

Per ultimo, le regole: solo diciassette regole, semplici da memorizzare (anche se Uefa e Fifa, le organizzazioni internazionali che governano questo sport, per motivi vari, ma intuibili, cercano continuamente di complicarle). Il calcio è fatto, diciamola tutta, di ventidue persone che corrono dietro a una palla, controllati da altre tre persone, gli arbitri. Questi stessi fanno parte del gioco, anzi del campo, come i pali delle porte: se la palla li urta, è come se avesse toccato il terreno.

Allora, ventidue persone che corrono dietro a un pallone, cercando di governarlo con i soli piedi, con cui devono anche spostarsi a volte repentinamente, facendo aggio delle irregolarità del terreno, delle condizioni atmosferiche (a differenza degli sport indoor). È il motivo per cui, come sostiene Dimitrijevi, “Il calcio è il re dei giochi… perché – come la danza – riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei movimenti… nel calcio… Potete adoperare solo piedi e gambe, questi antenati sottosviluppati della mani e delle gambe. Ed ecco che, non potendo più fare ciò che per voi sarebbe normale o naturale, siete ritornati a funzioni arcaiche. Costretti a riannodare il legame con una memoria animale sepolta dentro di voi” (Dimitrijevi?, pag. 15). Sarà per questo che Gianni Brera ribattezzò Maradona Re Puma.

Già, Maradona, il semidio. Ancora, un’ultima volta, lasciamo parlare Dimitrijevi?: “Intendiamoci: Pelé, Platini, Beckenbauer sono grandi giocatori… Beckenbauer incarna il genere del giocatore perfetto, del professionista… imperturbabile sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e continua vivere un’esistenza che non mi appassiona per nulla. È come quei poeti accademici che consultano i rimari, si scelgono temi raffinati e diventano, nel migliore dei casi, epigoni di Valéry. È ammirevole ma non è niente. Quando Don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui (Dimitrijevi?, 2000, p. 117).

Allora, palla al centro… ventidue persone che corrono dietro a un pallone, in un tempo predefinito: due tempi di tre quarti d’ora ognuno. Punteggi in genere bassi. Che peso avrà la casualità in questo gioco? Che la si chiami neutralmente caso, o miticamente fatodestino, non cambia molto: la casualità c’entra parecchio, nel pallone (appunto, “La palla è rotonda”!) – e nella percezione degli appassionati fa parte strutturale, legittima del gioco. E costituisce – crediamo – un aspetto essenziale della sua bellezza: rende l’esito delle partite imprevedibile, fino all’ultimo secondo. Condizione sintetizzata perfettamente da Vujadin Boskov, calciatore e poi allenatore vagabondo, quando dichiarò “Rigore è quando arbitro fischia”, come a dire che a decidere è, alla fine, il caso: e quando questo si è espresso, produce e istituisce la verità delle cose, a prescindere da qualsiasi evidenza fattuale.

Negli sport, o meglio, in come gli sport si collocano fra le altre forme spettacolari di massa nella modernità, che questo o quello piacciano o meno al singolo, c’è sempre un aspetto simbolico, che li rende produttori di miti. In termini di auraticità del campione, e in quelli di mitizzazione di eventi sportivi particolari, trasferiti nell’immaginario per la loro esemplarietà. Questo vale a maggior ragione per quelle discipline sportive particolarmente “audio/videogeniche”, cioè particolarmente adatte a essere diffuse attraverso i media audiovisivi. Il football è scuramente fra questi. E qui si è innestato, ormai da decenni, un circolo virtuoso: più i media se ne occupano, più il calcio cresce, più cresce, più è medializzato. Più ce lo si può godere.

Altro argomento su cui si innescano polemiche furibonde, naturalmente, fornendo ad “apocalittici” e “integrati” in versione sportiva l’occasione per esercitare la propria verve moralistica.
Dimenticando – o meglio, mostrando di ignorare – uno degli assunti fondamentali delle scienze sociali: il “successo” del rapporto fra una merce e i suoi consumatori si colloca in un luogo dove si incontrano bisogni e loro soddisfazione, al di là degli eventuali – e fantasmatici – “condizionamenti”, “pressioni”, e così via… Specialmente quando la merce in questione ha alti contenuti simbolici, affettivi, emotivi: quando cioè è una merce estetica (Cfr. Abruzzese, 1973). E il calcio, come tutti gli sport, nel momento in cui è entrato in una dimensione spettacolare di massa – e quindi nell’orbita dei mezzi di comunicazione – è diventato merce estetica. Con, in più, la caratteristica, rispetto a molte altre discipline sportive, di conservare uno stretto rapporto con la sua praticabilità concreta da parte di chiunque – quindi con la conoscenza diretta, per esperienza, da parte dello spettatore, del suo linguaggio, della sua parole. Permettendo così continuamente all’appassionato di vivere simbolicamente ciò che avviene sul campo.

Nel successo continuamente crescente che ha vissuto durante l’intero XX secolo il football assomiglia ad un’altra formidabile macchina mitopoietica novecentesca, il cinema. Laddove il pallone permette una identificazione fra spettatore e calciatore nella complessità dei gesti atletici che caratterizzano questo sport – in cui l’intero corpo è continuamente coinvolto, con la difficoltà ulteriore di manovrare la palla con i piedi, mentre questi si muovono per spostare il corpo dell’atleta – il film istituisce una analoga mimesi con l’affettività e l’emotività dello spettatore.

Ma c’è di più, una caratteristica dei due dispositivi spettacolari, elementare e concreta, che li rende più che affini – e che crediamo aggiunga un ulteriore motivo alle ragioni del suo successo.
La partita di calcio è tradizionalmente composta di due tempi, divisi da un intervallo, di 45 minuti. Esattamente come il film classico. Questa durata ha un carattere quasi fisiologico, necessario a una corretta gestione del lavoro simbolico da parte dello spettatore. In applicazione, quasi, di una riflessione che faceva Edgar Allan Poe agli albori dello sviluppo della cultura di massa, quando nel suo saggio Filosofia della composizione scriveva: “Appare dunque evidente che, in tutte le opere letterarie, esiste un netto limite per quanto concerne la lunghezza – il limite di una singola seduta…” (Poe, 1974, pag. 1074, corsivo nostro).

Lo scrittore americano sostiene questo punto di vista in particolare per la poesia, ma il linguaggio del cinema – evocativo, e metaforico, logopatico (Cabrera, 2000) com’è – è assimilabile proprio a quello della poesia piuttosto che della prosa. La partita di calcio segue lo stesso andamento temporale…
Una coincidenza? O una caratteristica che fa del pallone il gioco – lo sport – per eccellenza della modernità?

Il calcio, nonostante tutti i tentativi – spesso riusciti, specie negli ultimi decenni – di  forzarne la natura: i tre punti per la vittoria, l’allungamento della durata della partita con i recuperi finali, le sostituzioni, tutti attentati all’equilibrio sostanziale della sua forma, strumentali a una presunta maggiore telegenicità, conserva la sua forza strutturale. Conserva la capacità di produrre Mito, attraverso i gesti vertiginosi, sciamanici, dei suoi eroi, gli esiti imprevisti, gli incidenti, le coincidenze, le sostanziali ingiustizie: gli interventi imperscrutabili del dio del pallone. Come scrive Osvaldo Soriano, dando voce a un piccolo arbitro caduto in disgrazia: «Non ci fece caso e mi indicò i denti che gli mancavano: “Vedi? Questo fu un gol di Sivori in off-side. Ora guarda un po’ dove sta lui e dove sto io. Non c’è un dio del futbol, ragazzo, non c’è un dio. Perciò questo paese è ridotto così. Di merda”».


Tratto da “Quaderni d’Altri Tempi” n. 26 – 2010.

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