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Il calcio italiano non si merita Bielsa

Il calcio italiano non si merita Bielsa

C’è una notizia bellissima per il calcio italiano: Marcelo Bielsa sembrerebbe davvero a un passo dal diventare il nuovo allenatore della Lazio. Secondo gli ultimi rumors, l’accordo con Lotito è vicino alla chiusura.

Avvertenza, prima che iniziamo a scrivere: chi vi vuole raccontare cosa accadrà è un tifoso assoluto di tutto ciò che riguarda El Loco. Di tutto ciò che ha fatto, di tutto ciò che rappresenta e che ha portato nei luoghi in cui ha allenato. In cui ha divulgato quella che, a tutti gli effetti, è la sua scienza del pallone. Detto questo, chiarite le posizioni, partiamo.

Bielsa è un viaggio, innanzitutto. Un viaggio che inizia e si sviluppa al contrario rispetto alla convenzionalità dell’allenatore “classico”: le giovanili della sua squadra nella sua città, il Newell’s Old Boys di Rosario. Già questo vuol dire tanto, tantissimo. Perché Rosario, in Argentina, è la città del calcio, e il Newell’s possiede addirittura una scuola di proprietà in cui cresce e alleva i suoi uomini/calciatori. Oggi, lo stadio in cui giocano i rossoneri si chiama (già) “Estadio Marcelo Bielsa”. Una delle tribune di quell’impianto si chiama “Diego Maradona”, anche se il signore cui è intitolata ha giocato solo cinque partite da queste parti.

Dopo aver vinto due titoli nazionali con i rossoneri, Bielsa inizia un vagabondaggio che per chiunque altro darebbe un senso di fine carriera: Messico, di nuovo Argentina (Velez Sarsfield), poi la Spagna (Espanyol) e subito il posto da ct dell’Argentina. Quando viene nominato, Bielsa ha solo 43 anni. Pochi per un ct, forse. Ma lui è Bielsa, el Loco. Un soprannome che forse in Argentina viene dato con troppa facilità, ma che mai come stavolta è azzeccato. Perché Bielsa non è loco in campo, ma per il campo. È un maniaco, folle studioso del pallone e della filosofia. È un pazzo non veramente pazzo, se non per il calcio e il pallone che si gioca a modo suo. Se cerchi su internet, ti dicono che il suo modulo è il 3-3-1-3, ma la verità di Bielsa sta nella mentalità. E in una frase: «Esiste la sconfitta che serve e la vittoria che non serve a nulla». E in un discorso, che ha fatto il giro del web e che è commovente, davvero.

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Qui è già al Marsiglia, la seconda parte di un viaggio che abbiamo già definito “contrario”. Perché c’è l’Argentina, con un Mondiale 2002 da stravincere per qualità della rosa e che invece perde malamente al primo turno. Alla Copa America del 2004 c’è ancora lui, e stavolta sembra davvero poter andare meglio. Solo che nell’ultimo minuto di gioco della finale contro il Brasile, Adriano segna un gol che è come la sconfitta col Lione: un’ingiustizia. Alla fine il Brasile vincerà il Sudamericano, ma Bielsa è ancora lì. Bielsa non si esonera. Il viaggio è al contrario: dopo il triondo ad Atene, medaglia d’oro olimpica che in Sudamerica vuol dire tanto, Bielsa si dimette. E si ferma per tre anni.

Lo ritroviamo in Cile, come Ct, a costruire il movimento calcistico, più che la squadra, che un anno fa ha vinto il primo trofeo importante della sua storia (il Sudamericano). Durante la Copa in corso di svolgimento negli Stati Uniti, si è giocata Argentina-Cile. Durante la telecronaca, quello che oggi è il più preparato commentatore calcistico italiano, Lele Adani, dice una frase che vale anche di più della sua esultanza anti-professionale in Napoli-Frosinone al gol in rovesciata di Higuain: «Si stanno affrontando due squadre che hanno in panchina Martino e Pizzi, che hanno cambiato almeno due ct da quando c’è stato Bielsa. Eppure parliamo del Loco da almeno dieci minuti». Effettivamente sì, parlavano del Loco da dieci minuti. Ma nessuno si stava annoiando.

Non si sono annoiati nemmeno a Bilbao e Marsiglia, le ultime tappe della carriera al contrario di Bielsa. Luoghi complessi, soprattutto dal punto di vista socio-politico. Il luogo perfetto dove seminare calcio, passione, attenzione e amore per quello che si fa. L’Athletic torna in una finale europea dopo 35 anni, il Marsiglia prende a giocare bene ma poi si squaglia dietro un Psg che è davvero troppo forte. Nel frattempo, ai due titoli vinti col Newell’s e all’oro olimpico di Atene, si è aggunto solo un altro titolo col Velez. Nient’altro in bacheca ma non conta.

Proprio per questo, per tutto questo, chi scrive spera che Bielsa ci ripensi. A noi piacerebbe da morire vederlo in Italia, e un Bielsa alla Lazio vorrebbe dire che la Lazio diventa subito la seconda squadra di chi scrive (dietro il Napoli ovviamente). Però no, non è il posto per lui. E non è niente contro la Lazio o Roma città. È un problema di mentalità italiana, di non saper attendere e/o distinguere la vittoria dal calcio. Sono due cose che spesso vanno insieme, spesso invece no. 

Lo dimostra Bielsa che già immaginiamo a una conferenza stampa mentre parla di calcio, di movimenti, di azioni di gioco. Quello che sa fare lui, che vuole fare e trasmettere lui. Mentre magari un giornalista romano – o anche fiorentino, veronese, torinese – gli chiede perché la sua squadra non ha vinto o perché non fa giocare tizio al posto di caio o cosa ne pensa del calciomercato. Una roba troppo minima, troppo brutta, che in qualche modo abbiamo vissuto a Napoli con Benitez e che si ripeterebbe moltiplicata per cento a Formello o in qualsiasi altro luogo di questo strano paese capace di indignarsi quando una squadra si difende per vincere e di indignarsi allo stesso modo se il gioco offensivo di un’altra squadra “sbilancia troppo l’assetto”. E questo, solo se parliamo di tattica.

Magari poi Bielsa arriva davvero, e finisce per essere un meteorite che tutto travolge. Finisce per educare anche noi, bruttissimi e stranissimi italiani schiavi del risultato, al bello e al bello del calcio. Ci crediamo poco, in realtà, ed ecco perché tifiamo affinché alla fine dica no a Lotito (che a sua volta è uno di quelli che se lo meriterebbe di meno). Magari per accettare quella che sembrava la sua destinazione designata in Premier League, il Southampton. La seconda miglior Academy di Inghilterra dopo il Tottenham, una squadra costruita con un progetto.

Così poi tra tre anni, quando Sarri avrà vinto tre scudetti e due Champions, prendiamo lui e continuiamo a divertirci. El Loco fa questo, di mestiere. La vittoria è solo un numero, alla fine.

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