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Sconcerti e la forza della Juventus senza patria

Sconcerti e la forza della Juventus senza patria

Quante volte, da napoletani e tifosi del Napoli, abbiamo sottolineato il nostro senso di appartenenza, il legame imprescindibile esistente tra squadra e città e quanto esso ci renda fieri di sostenere gli azzurri. Contrapponendoci nettamente in questo agli juventini, specie quelli delle nostre parti, che altrettante volte abbiamo apostrofato come “apolidi”, “rinnegati”, “senza terra”. Ma se proprio questo, paradossalmente, facesse parte della loro ricetta vincente? E’ quanto sostiene Mario Sconcerti nel suo  editoriale sul Corriere della Sera, commentando l’ennesimo scudetto bianconero. Con un passaggio chiave in cui afferma: “La Juve non ha una città alle spalle, una piazza che chieda continuamente spiegazioni. Ha il sentimento algido di una grande azienda, si può far solo quello che serve, senza dare spiegazioni al popolo”. Un concetto che Sconcerti aveva già accennato in un altro editoriale di qualche giorno fa in cui si era soffermato sulla differente gestione da parte della Juventus del caso Del Piero, rispetto a quanto sta accadendo a Roma con Totti.

In effetti la differenza con altre realtà come quella della capitale, ma anche quella di Napoli, non potrebbe essere più marcata. Chi è stato a Torino almeno una volta avrà immediatamente percepito come sul posto si batta prevalentemente bandiera granata più che bianconera e che, in generale, sia difficile respirare calcio anche nella quotidianità. Cosa che avviene invece alle nostre latitudini, dove tifosi e addetti ai lavori sentono e vogliono far sentire la propria vicinanza alle sorti della squadra in maniera spesso eccessiva. Dimenticando a volte che la critica è legittima, il voler mettere necessariamente bocca in cose di cui si può avere contezza tutto sommato relativa come le strategie di gestione societaria e sportiva decisamente meno: prova ne sia che i de profundis su una squadra seconda in classifica a 270 minuti dalla fine del campionato si sprecano, come se fosse già tutto da buttare.

Certo, polemiche e contestazioni albergano anche in Piemonte: l’atmosfera a Vinovo, il giorno dell’arrivo di Allegri, era tutto tranne che idilliaca. La società però ha tirato dritto per la sua strada, non sentendoci da quel punto di vista e facendo sentire il suo peso. E infatti il tecnico livornese è rimasto saldamente in sella con ben poche altre occasioni in cui essere messo in discussione. Ha tirato dritto, eccome, anche la squadra, anzi rilanciando nei momenti di difficoltà. A settembre, con la Juve sotto 0-1 contro il Chievo, Buffon reagì a muso duro ai mugugni dello Stadium invitando la curva a sostenere i protagonisti di quattro scudetti di fila. Non a caso Sconcerti, nel suo editoriale, scrive: “La Juve è sempre presente, ma lontana, nessuno arriva a toccarla. E’ l’unica società più forte della propria gente”.

Mettendola su questo piano, è quasi impietoso il raffronto con la realtà napoletana. Dove abbiamo una società che ha tentato la strada dell’allontanamento geografico dal centro cittadino, domiciliandosi a Castelvolturno, senza però beneficiarne più di tanto. Finendo poi per essere lontana, nel senso più deleterio del termine, dai tifosi quando più contava: troppo spesso De Laurentiis è sparito dai radar, quasi mai a ragion veduta. Per tacere dell’attuale silenzio stampa, strategia quantomeno rivedibile se non anacronistica per dimostrare spirito di corpo, quando invece proprio in questa fase sarebbero stati più utili a tutti dirigenti e staff tecnico in grado di spiegare il momento difficile e di compattare l’ambiente. Sui giocatori va fatto un discorso a parte. La gara dell’altro ieri con la Roma ha dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, che l’ultimo tassello che manca davvero a questa squadra per essere competitiva fino in fondo per i massimi traguardi è avere al proprio interno dei leader non soltanto dal punto di vista tecnico ma anche da quello emotivo e carismatico. Una leadership che però dovrebbe basarsi su una credibilità riconosciuta e in grado di affrancarsi dai meccanismi e dalle facili retoriche che noi stessi alimentiamo. Forse bisognerebbe solo provare a spostare il focus del senso di appartenenza e d’identità all’interno del campo, insomma iniziando a trattare i giocatori come dei veri professionisti più che come delle estensioni di noi stessi.

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