“Ieri dar friggidere, c’ho svotato pe’ daje ‘na sbrinata, c’è sortito un pezzo de guanciale rancichito, ‘na crosta de formaggio smozzicato, ‘na ciotola de strutto congelato, du’ fette de prosciutto inseccolito, un ciuffo de basilico appassito e un pomidoro mezzo magagnato. Voi buttavate tutto alla monnezza, ma io, c’ho combattuto cor bisogno, ciò fatto “er sugo de la fanciullezza”. Un sugo cor sapore rancichetto, che m’ha portato indietro come un sogno, ar tempo bello ch’ero poveretto”.
Sono i bellissimi versi di una poesia di Aldo Fabrizi. Si chiama “Spaghetti alla poverella”. La ricetta somiglia a quella degli spaghetti alla Puverielle che si cucinavano a Napoli nel dopoguerra, quando con un po’ di pasta, un pizzico di sugna e un uovo si rendeva saporita una cena nelle case delle famiglie meno facoltose.
Alla inimicizia calcistica tra Roma e Napoli – divise dalla scelleratezza di gente che parla di calcio ma non lo ama, forse perché non ama nemmeno se stessa – si contrappongono secoli di storia comune, contiguità artistiche e culturali, incontri e amicizie importanti tra grandi uomini, come Totò e Fabrizi, appunto.
Liliana de Curtis ha raccontato che “Fabrizi era l’unico attore che Totò frequentava nella vita privata. Ci fu un periodo che veniva quasi tutte le sere a casa nostra, quando era ancora viva la nonna che passava pomeriggi interi a preparare da mangiare per tutti. Fabrizi era molto scherzoso e divertente e papà lo stava ad ascoltare fino a tardi e rideva come un bambino”.
Pure Monicelli e Steno hanno descritto, più volte, lo stupendo rapporto che c’era tra i due, capaci di divertirsi anche durante le riprese fino al punto di dover interrompere alcune scene “perché i due attori scoppiavano improvvisamente a ridere”. Per Steno, però: “Erano duetti di due leoni. Ogni tanto, quando uno si sentiva sopraffatto dall’altro, cavava fuori le sue astuzie di grande attore. Così Totò fregava Fabrizi con una battuta imprevista e Fabrizi fregava Totò mettendosi a ridere e interrompendogli la scena”. Successe nella scena de I tartassati ambientata in una stanza di ospedale. Bellissimo il ricordo di Lella Fabrizi, che in quel film faceva la parte dell’infermiera: “Non riuscivamo mai a terminare perché eravamo letteralmente travolti dalle risate, La pancia di mio fratello ballonzolava sotto le lenzuola, mentre Totò, scatenato come uno scugnizzo, ne inventava una al minuto. Alla fine, eravamo alla trentaseiesima ripresa, non ce la feci più, oppressa anche dalla mia mole già notevole e lo supplicai di smetterla”. Lo stesso Aldo Fabrizi, poi, in una intervista al Corriere della Sera nel ’77 aveva confermato quella stupenda amicizia che andava oltre il ciak: “Lavorare con Totò era un piacere, una gioia, un godimento perché oltre ad essere quell’attore che tutti riconosciamo era anche un compagno corretto, un amico fedele e un’anima veramente nobile”.
Ma ero partito parlando di cibo, perché di cibo devo parlare, e ho perso la bussola. Riprendo il filo delle idee per tornare al principio, alla pasta cucinata con le uova, che ha un suo riferimento nella ricetta tutta romana della Carbonara, “evoluzione del piatto detto cacio e ova, di origini laziali e abruzzesi, che i carbonari usavano preparare il giorno prima portandolo nei loro tascapane, e che consumavano con le mani”. Eppure, come ha affermato il giornalista enogastronomico Luciano Pignataro, sull’origine della ricetta ci sarebbe anche una ipotesi partenopea individuabile nel trattato del 1837 “Cucina teorico-pratica” di Ippolito Cavalcanti.
Come a dire, alterando il noto proverbio, che in cucina tutte le strade portano a Napoli.
E chest’è. Edamus, bibamus, gaudeamus! E sempre forza Napoli!