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Nell’Estadio Maradona, casa dell’Argentinos Juniors, dove si tifa al ritmo di Grignani

Nell’Estadio Maradona, casa dell’Argentinos Juniors, dove si tifa al ritmo di Grignani

Cos’altro fare un sabato pomeriggio con forte rischio pioggia, a Buenos Aires, se non andare a vedere l’ultima squadra in classifica, due punti in sette partite? Nessuna alternativa, non c’è dubbio. Oltre però all’evidente fascino del progetto in sé, influisce anche il nome di questa squadra. A sette anni, guardavo sull’album Panini del 1984 la brutta foto di un certo giocatore. Accanto, leggevo la sintesi della sua carriera. Iniziava così:
1976. Il nome di questa squadra. Presenze: 11. Reti: 2.
1977. Il nome di questa squadra. Presenze: 49. Reti: 19.
1978. Il nome di questa squadra. Presenze: 26. Reti: 35.
1979. Il nome di questa squadra. Presenze: 26. Reti: 26.
1980. Il nome di questa squadra. Presenze: 45. Reti: 43.

In questa squadra, infatti, ha fatto le giovanili la magia molti anni fa, e ha poi esordito nel massimo campionato. Chissà come dev’essere stato, all’epoca, vedere i riccioli della magia svolazzare in campo, e le schiocche rosse da adolescente accendersi in un assist. Non male, mi sa, visto che quando hanno rifatto lo stadio, nel 2003, l’hanno intitolato a quei ricci. Il nome di questa squadra è Argentinos Juniors. Gioca nell’Estadio Diego Armando Maradona.

«Vaya pibe. Juegue como usted sabe y, si puede, tire un caño». Vai, ragazzo, gioca come sai e, se puoi, fai un tunnel. Ma quale allenatore raccomanda tunnel ai suoi giocatori? Juan Carlos Montes, il 20 ottobre 1976. Diede una pacca sulle spalle alla magia, pronta con il numero 16 a entrare in campo per la prima volta in serie A, a quindici anni. Primo pallone, voilà, tunnel al suo marcatore, Juan Domingo “el Chacho” Cabrera.

Cabrera è morto nel 2007. Dichiarò: «Oggi come oggi aprirei le gambe, senza dubbio: è un tunnel di Maradona, del migliore». Allora neanche lo conosceva, quel ragazzino. Trent’anni più tardi, il giorno dopo la sua morte, i giornali titolavano: “È morto il primo giocatore che ha provato a togliere la palla a Maradona”, “L’uomo che non chiuse in tempo le gambe”, “L’uomo che per primo volle togliere la palla al genio”. Sandro Veronesi scrisse su «laRepubblica»: Chiedete a Claudio Gentile, terzino della Juventus, che gli martoriò i malleoli per tutta una partita e gli strappò la maglietta a furia di aggrapparcisi, ma non lo fece segnare; chiedetegli perché quello è stato il momento più alto della sua gloriosa carriera. E chiedete a Joao Batista, centrocampista brasiliano, che nella partita Argentina-Brasile lo provocò e si beccò un violento calcio nello stomaco [..]. Per non parlare di un certo Goicoechea, truce randellatore dell’Atletico Bilbao: chiedete a lui chi era Maradona; chiedetegli perché gli spezzò di netto tibia e perone con una forbice da dietro nell’autunno dell’83; chiedetegli se avesse un altro modo per passare alla storia.

Lo stadio è nel tranquillo quartiere di La Fortaleza. Tanto tranquillo che quasi quasi al ritorno compro una pianta di salvia per casa, penso fuori a un fioraio. Pensieri inediti per un’andata allo stadio. Neanche me ne accorgo e mi trovo davanti ai botteghini, finestrelle di un muro bianco e rosso con le scritte inneggianti al “bicho”, l’insetto che in questo caso è una coccinella, com’è chiamata la squadra per i suoi colori. Il biglietto più economico costa 250 pesos, circa 17 euro: troppo. Sulle mura e i negozi del quartiere, i murales che ricostruiscono la storia della squadra, dalle origini anarchico-socialiste del 1904 a Diego, dal trionfo nella Libertador del 1985 all’ultimo torneo vinto nel 2010. Si celebrano le “cebollitas”, le cipolline, la squadra giovanile che partorì la magia. Qualche timida scritta inneggia a Juan Roman Riquelme, ultimo grande 10 del calcio argentino, anch’egli partito da qui, e qui ritornato a chiudere il cerchio del suo calcio lento (“Abrazame hasta que vuelva Roman”, abbracciami finché non torna Roman, si scrive sui muri e sui banchi di scuola di Buenos Aires). Poca gente beve all’ingresso, pochi poliziotti perquisiscono: il clima surreale delle partite delle squadre scarse. «Se uno non vede calcio muore» è la prima frase che sento dire appena varcato l’ingresso. Credo lo dica un anziano, ma forse è lo stadio stesso a sussurrarlo, nel momento fatidico e ogni volta bellissimo in cui mi trovo davanti al prato verde. Prendo nota: come capire che uno è morto? Non vede più calcio. Non fa una piega. Lo stadio è piccolo: 25mila spettatori, dicono, ma gli spalti dove mi accomodo sono stretti gradoni, senza sediolini. 25mila pressatissimi, forse. Poi gli spalti di fronte, con i sedili, comunque polverosi. Si accomoda lì il tifo organizzato. Il lato corto dietro una porta è chiuso al pubblico; dietro l’altra solo alberi, come nei campetti delle partite estive dei giocatori abbronzati. Quattro gatti all’inizio, poi qualcuno in più. Con l’oscurità sembrerà pieno, ma non lo è.

Prima della partita, gli altoparlanti danno il benvenuto con una voce da audioguida. Definiscono questa brutta struttura “Il tempio del calcio”. Viene da sorridere. Ma se uno ci pensa su, volendo usare un paragone sobrio e misurato, Maradona che a 15 anni entra e fa tunnel è come Gesù che a 12 anni parla con i dottori del tempio. Eccolo lì Diego: sul maxischermo un suo video messaggio. Seduto sul letto di Dubai con la maglietta rossa del Che, parla ai calciatori, raccomanda loro di giocare con la testa e non solo con il cuore (un po’ sorprende), ricorda i suoi inizi con quella maglia. L’arbitro aspetta. Appena la magia finisce di parlare si può dare il fischio d’inizio. Sugli spalti del tifo organizzato, non solo cinque sei tamburi, ma anche cinque sei trombe. Che belle le trombe allo stadio. Quelle d’ottone, intendo. Si canta per tutta la partita, ma questo si sapeva. La notizia del giorno, invece, è che cantano un coro sulle note di “La mia storia fra le dita” di Gianluca Grignani. Ho cercato se per caso Grignani copiò la melodia da qualche pezzo argentino. No. Nello stadio Diego Armando Maradona si canta un coro con il ritmo di Grignani.

La cronaca della partita lascia il tempo che trova. Primo tempo 0-0. Secondo tempo 0-3. Il momento migliore è all’intervallo: in quei quindici minuti riprende fiato e riposa vicino a me un ragazzino che ha dispensato “conchesumadre” e altre improperie a cascata durante il primo tempo. Sul maxischermo, un tifoso chiede alla sua ragazza di sposarlo. Il ragazzino vicino a me riprende fiato, si alza e urla a squarciagola, strappando applausi a molti spettatori venuti oggi allo stadio Diego Armando Maradona a vedere l’ultima in classifica con rischio pioggia, a un prezzo troppo alto per questa pochezza che non si sa se incoraggiare o sommergere di fischi, ma sull’urlo del ragazzino non ci sono dubbi: si applaude e ci si diverte pure, perché la reazione del ragazzino delle parolacce di fronte alla proposta di matrimonio e alla foto dei due ragazzi incorniciati in un cuore, è una frase condivisibile in generale, ma soprattutto di sabato pomeriggio: «Que viva el amoooorrrr!», urla.

(foto di Alberto Bile)

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