ilNapolista

Pino Daniele, l’ultima notte che se ne va

Pino Daniele, l’ultima notte che se ne va

Siamo in tanti, qua, nella notte, a vederlo andare via. E lui è in tanti, modi: noi, che lo guardiamo. Ieri, oggi, domani: la vita, quella degli altri; i giorni: suoi; l’obbligo, invece, verso il tempo, nostro. Ed io – che sono tutti, per sempre, tutto e tutti, in una notte sola: questa – passo tra le loro memorie, di chi ha saputo e chi no, di chi ha immaginato e di chi ancora deve capire; e il dopo è solo vuoto concretizzato in una smorfia, certo: di dolore, che vede la bocca aperta, e il resto, il resto, è sforzo gigantesco per accettare la verità. E la mia fede è stata sempre solo in quello che si vede, senza mai farmi condizionare da niente e nessuno, e allora «Jamme puortame ‘a casa mia», in una ripetitività che è «abbiamo capito», un determinismo selvaggio, quasi involontario, storico-culturale, un sintomo di paterna scocciatura, esplicitato in tono leggero: «Sono napoletano anch’io», per dire che non c’è bisogno di ripetere: questa è l’Ultima Notte.

E magari ci fosse una scala empirica per misurarla e impedirle di finire, contenendola in un esercizio, anzi, no, un esorcismo contro il male ontologico che contiene, ma non c’è. Lo so, lo so, è una forzatura retorica, resa possibile nell’ultravisione a occhio di una canzone, che anni dopo è diventata concezione, e allora lasciandoci dietro quella strana forma di superstizione razionalista, possiamo appellarci al delirio che fu suo allora e che è nostro adesso, il delirio che sta nel verbo vedere. Un delirio che per molti è stato dogma, punto di vista precostituito, facendosi verità assoluta, declinandosi in centinaia di migliaia di convegni in strada – notturni, certo – dove chi non ha mai partecipato, cercando una interpretazione definitiva, non ha diritto di lamentarsi, ora, e nemmeno di piangere. “Notte che se ne va”, con poche altre, più che una canzone, è coscienza religiosa, necessaria appartenenza a un concetto universale: la notte, che diventa proprietà privata napoletana, passando dal mondo alle dita e dalle dita alle note in una acquisizione tirannica, contrizione cerimoniale quasi liturgica, senza sacrifici ma con eventuali acquisti di indulgenze – per ogni ascolto – doppie se notturne. In una operazione ideologica, sì, certo, che è appropriazione anti-trascendentale, capace di procurare non solo una egemonia – egoistica – ma il cui scopo è l’intimità, solo, solo quella; una intimità risolutiva capace di sciogliere i nodi allacciati col giorno, i debiti contratti nell’esercizio intenso e smisurato che è Napoli sotto il sole. Fuori dalle sentenze definitive del giorno, fuori dall’austerità della luce, fuori dalle compromissioni del tutto chiaro – grazie, lo prendo; è nella notte che bisogna sporgersi e scommettere, e provare a capire le indicazioni del magistero musicale, senza la preoccupazione di migliorare le attitudini congenite, né il bisogno di una conversazione sensata.

La sua conclusione obbligata è una fine improvvisa, con il suo aspetto profetico, impensabile rispetto a qualsiasi morale o diffusa immaginazione; quello che però c’è ed è evidente, fin da subito è l’aggregazione inedita, la conciliazione di strade e sentimenti, masse e principi di assoluzione – che solo la notte può concedersi – una adesione totale, fisica, tra città e pensieri, tanto da potersela passare come patrimonio comune, un prodotto privo di dottrina, che però concilia la fissazione napoletana per la libertà e soprattutto le inclinazioni simmetricamente proporzionali alla pavidità di chi si rivolge al cielo. L’ultima notte, quella che andandosene ti porta via; una notte dispari, senza prudenze o infingimenti, dai margini estremi – vita, morte – che si tramuta nella formula definitiva che sancisce la transizione tua e il silenzio nostro. È una notte che consente a chi non aveva capito di capire, a chi non aveva apprezzato di apprezzare, che contiene nella sua infelicità, una formula che permette di andare oltre tutto quello che soffoca Napoli e che è divenuto format, è un rosario di salvezza, e, anche, nella sua infelicità, contiene una assoluzione possibile, cantando di una coabitazione tra le complicate diplomazie che abitano la lingua della città, c’è lo spazio per i compromessi di chi canta – in una innocenza che bordeggia le strade e che fa tenerezza – e c’è l’interruzione o tregua, chiamatela come vi pare, tra la variante violenta dell’ortodossia camorristica e la brava gente che vuole stare in pace, una massa distinta che viene sublimata nel non accettare sgarbi almeno fino all’alba; così, la notte – contesto e collocazione naturalmente sinistra – diviene dislocazione di speranza, vangelo apocrifo che dura fino alle prime luci dell’alba; rifugio, sfumatura, e inquieto sussurro canzonettaro che per una volta ha ragione del resto, in una determinazione da scala musicale – che al momento della composizione manca e mancherà a lungo alla città. Tanto più le strade vengono invase dal buio, tanto più la canzone raccoglie l’irrequietezza di chi non può dire, ma il canto permette la libertà – dal tempo ostracizzato, da buona parte della città e da chi la governa – che parte solitaria, individualista e diventa organizzazione in strofe, con un margine di identità, anche se buia, nell’opera.

Ogni verso è un frammento di città, un dettaglio nel piano complessivo, una dilatazione biografica, arrivando a una conciliazione che è impossibile durante le ore del giorno. Attraverso un numero virtualmente limitato di indizi c’è il disegno di una mappa sentimentale che ricompone una vita, la sua, quella del cantante, e conseguentemente è la valorizzazione di quei quartieri che non sapevano di avere un valore, e che scopriranno un recupero breve e nemmeno intenso per un periodo limitato. La voce, la sua, e i lemmi, i nostri, si uniscono, allora: l’alto e il basso, il poroso e l’impermeabile, il sobrio e lo sguaiato, il popolare e l’elitario, si intrecciano nel ritornello, senza gerarchie di valore o provenienza, divenendo l’ipotesi possibile di un «popolo che cammina sotto ‘o muro». “Notte che se ne va” sposta prospetticamente la città, la racchiude, e la addiziona, mette una sull’altra tutte quelle che si allungano e si arrampicano dal Vesuvio al mare, riuscendo a non inciampare mai nella retorica, non ha grandi proclami, ma piccole semplici idee, nemmeno definibili come nobili, porta a spasso un desiderio di massa, che non ha ancora una massa, lo troverà – sempre di notte – a Piazza Plebiscito, in una esecrazione del destino che da investitura giunge a commiato.

È una canzone che si iscrive alla tradizione, offrendo una tonalità di riscatto, ha una estetica immaginativa ancorata a una perfetta geografia della città, un ossimoro forse, ma la cui forza sta nel non solleticare rivolte o assolvere spigolosità caratteriali del popolo che la canta, no, è un tentativo di proscioglimento della semplicità, che viene scolpita in versi e note, quasi camminando, con il disimpegno proprio del tempo che canta, quando tutto è possibile, quando ci si può permettere una superficialità che non è mancanza di rispetto ma esercizio del sogno. Ma non è una canzone minimalista, una lista striminzita di speranze, no, è il tentativo di far coincidere tempo cantato – la notte –  e tempo vissuto – tutte le notti che vivremo in quei posti di quella città –  in una circolarità riconoscibile oltre il testo, la musica, la morte e l’immortalità – tentata – provando a scavalcare i confini, aspettando che il giorno ristabilisca priorità, riportandoci nel quotidiano, nelle abitudini, nelle regole e nell’assenza di fuga; un giorno vissuto come condanna prima ancora che come contrapposizione alla notte. La canzone non allude ma dice, in un composto racconto, che induce al fare, al muoversi e al non aspettare, anche se chi canta sta – inesorabilmente – scivolando via. Non ci sono concessioni alla morale, non c’è merce sofisticata né ungarettismi, non c’è trash né strillo, c’è, invece, una forza, sommessa, silenziosa, irrefrenabile che però non diventa mai sguaiata, e si finisce per apprezzarne invidiosamente lo stile, che pare involontario, non ricercato, eppure composto, senza cadute né pieghe. È la precisione della notte che taglia la luce, questo contiene la canzone, filtra la collera della città, lascia correre con ironia sulle malefatte, in un canone che è misteriosamente sia distante sia accoratamente vicino a quella che per brevità diremo: anima della città. Non ci sono sprezzature, non ci sono scalini, c’è un giro piano, di chi avanza e si accerta dello stato della notte e delle sue richieste, di chi raccoglie le istanze di un popolo non ancora divenuto gente, e senza rammarico, al limite della noncuranza, accoglie le richieste di chi non può dormire per un ordine superiore e allora non solo accetta l’ordine ma ci si immerge, con le valutazioni del caso e le sedimentazioni dei compiti assegnati, che non dice no, «va tu, va, che io sbareo» ma resta e si scompone, perde. E, il cantante, appartenendo ai fuori posto di giorno, trova finalmente una collocazione che se non è spaziale è quantomeno esistenziale. Per questo mescola fantasmi e indizi, in una commistione dichiarata eppure impercettibile, tra chi cerca ancora di emergere e chi si è già rassegnato, una lotta tra tumulto e silenzio, che si percepisce solo dopo. Non c’è il chiacchiericcio para-filosofico che sempre la notte chiama, no, c’è un pragmatismo napoletano, e una competenza di vita che ha solo chi è nato, vissuto e morirà per strada. Questo è l’unica concessione alla sufficienza, che però viene plasmata con l’anomalia poetica tipica delle sue canzoni, una disparità di chi non è mai a proprio agio, di chi sente il sospetto di non avere l’aristocratico controllo del ruolo che occupa.

Ed è proprio la presenza costante del disagio che permette alla canzone di uscire dal conformismo del tema, dal carico di parole e immagini che si trascina dietro, imboccando l’inconsueto, riuscendo a mimetizzare sulle facce della gente e a restituirci i pensieri che stanno dietro quelle facce – «scordate a Dio e senza peccato». È uno stato d’eccezione che riassume la condizione del buio associato alle mura di Napoli, un tempo sovrano che solo la sua insicurezza intellettuale poteva dominare, con un ritmo biografico che diventa espressività primitiva, non assimilabile se non nei sentimenti, il suo è un linguaggio musicale e di scrittura non derivato, tra i pochi italiani, che non ha obblighi di sorta, e che non è soggetto a irrigidimenti ideologici, esce puro, registrando il gusto collettivo, e divenendo modello identificativo, riconosciuto e praticabile, da studiare nella sua autenticità, e con lui tutto quello che canta, dalla Notte al giorno, diventa eccezione. No, no, questa non è una cerimonia, e quella canzone non si presta a diventarlo, perché ha una costruzione narrativa che va oltre la presenza associativa col santo da calendario. E se mal si presta all’intrattenimento, non contenendo lo strillo o l’azzardo, finisce, persino, per essere dimenticata, nella marea dilagante di produzione canterina fuori e dentro Napoli. Perché a saper padroneggiare le malizie della notte, a saper governare i fenomeni del buio e le loro dirette conseguenze e tentazioni, si finisce per far paura a se stessi e agli altri, si finisce ad apparire una leggenda idolatrica prima ancora che il tempo ti lasci passare da una condizione all’altra, si finisce per diventare il monumento da maltrattare; così, quando, poi, accade che tutto finisca, che si debbano fare due conti con la musica e le parole messe in fila, la sorpresa è doppia: perché finalmente esci dal conformismo mediatico e dagli sguardi di chi appartiene al tuo stesso tempo, e finisci in una notte che scivola via, quella che avevi cantato, e che noi avevamo sentito come nostra, non sapendo che sarebbe stata, la tua, ultima.
(tratto da mexicanjournalist.wordpress.com, è il brano scritto da Marco Ciriello per il libro “Ho sete ancora” – 16 scrittori per Pino Daniele)

ilnapolista © riproduzione riservata