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Lello Esposito: «Il mio primo Pulcinella lo feci col Das. Giro il mondo con Napoli, lei mi ha nutrito. Oggi in città c’è tanta energia, i turisti la sentono»

Lello Esposito: «Il mio primo Pulcinella lo feci col Das. Giro il mondo con Napoli, lei mi ha nutrito. Oggi in città c’è tanta energia, i turisti la sentono»

“Non ho mai visto la mia anima. Entrando nello studio di Lello Esposito, ne ho almeno sentito l’odore”. È la dedica di Massimo Troisi all’amico Lello Esposito dopo aver visitato il suo atelier, in piazza San Domenico. Ed è vera: perché entrare nelle scuderie Sansevero è come immergersi nelle viscere della città, scoprire Napoli attraverso i suoi simboli, vedere la sua anima che si risveglia partendo dalle radici.

Lello Esposito nasce a Napoli il 16 dicembre 1957. Suo padre, fognatore del Comune, uno che per lavorare doveva immergersi nelle viscere di Napoli, muore che lui ha undici anni lasciando la madre trentatreenne e 4 figli, di cui Lello è il secondo. Sono tempi difficili, saranno anni di sacrifici. Lello approda all’Orfanotrofio dell’Opera Don Guanella dal quale scappa di continuo, poi viene mandato a Ivrea dove lo zio Mimì lavora all’Olivetti: «Restavo lì a guardarlo lavorare in fonderia fino a mezzanotte poi lo aiutavo nel negozio di scarpe, il suo secondo lavoro. Alle sei attaccavo in latteria, come garzone, e poi alle 8 andavo a scuola». Già dipinge, attirato dall’arte sin da piccolo. Tornato a Napoli, nel ’73, mentre se ne va in giro per il Vomero, si imbatte in uno spettacolo di marionette e resta folgorato: entra in una cartoleria, compra un pacchetto di Das e un seghetto, strappa un lenzuolo e costruisce il suo primo Pulcinella. Da lì non si ferma più. Prima vende i suoi Pulcinella per strada, poi allestisce il suo primo laboratorio alla Doganella. Vuole diventare un artista, è il suo sogno. Ha un progetto. E lo realizza.

Nel 1997 acquista un atelier di 350 metri quadri a Palazzo Sansevero, in piazza San Domenico, organizza installazioni a Madrid, Parigi, Milano, New York, conquistando il cuore dei collezionisti, gira il mondo, ma torna sempre a Napoli, alle scuderie Sansevero. È lì che mi accoglie. Lo trovo che incarta dei pezzi da spedire a New York, mi chiede di avere un attimo di pazienza per l’intervista. Un’intervista incentrata su Napoli, le sue risorse, i suoi limiti, il suo essere protagonista di un nuovo dinamismo culturale che ha recentemente riportato la città al primo posto delle mete turistiche in Italia e anche delle difficoltà a gestire questo successo e a offrire servizi che siano all’altezza. Un’intervista che durerà due ore, fatta seduti sulle scale del suo atelier per non fermare in alcun modo quello che viene fuori da questo uomo semplice ma ricchissimo di racconti ed esperienze, un vulcano in eruzione.  

Lei l’ha sempre saputo cosa voleva fare?

«Sì, l’ho saputo, sperato, cercato. Tuttora coltivo il mio giardino, perché se non lo curi non vai avanti. Ma quando vedo che ho realizzato quello che sognavo da ragazzo… Esposito, poi, un cognome difficile: ‘Ma che fai, Pulcinella?’, mi dicevano, ‘e che significa?’, ‘Ah vuoi fare l’artista!’, mi deridevano. Io sono autodidatta, non ho fatto una scuola d’arte, mi sarebbe piaciuto. Sono solo cresciuto con questo compagno di viaggi scomodo. Pulcinella mangiava spaghetti, suonava, era sfaticato. Ma con me Pulcinella ha imparato a mangiare libanese, cinese, coreano, turco, indiano, persino a tenere un libro in mano. Dal 1978 al 1995, lavorando con Gaetano Colonnese, ho fatto un’esperienza straordinaria. Attraverso di lui crescevo e conoscevo uomini di cultura. Pulcinella con noi ha cominciato a leggere. Mi dicevano che era impossibile cambiare qualcosa che esiste da sempre, che ormai è scontato. Invece no, questa ricerca di metamorfosi è stata una sfida continua. Un grande filosofo e napoletano, Aldo Masullo, fece un libro di incisioni in cui c’era un piccolo Pulcinella che cresceva nelle pagine fino a straripare e a uscire fuori dal libro con un’incisione ad acquaforte che era un segno astratto. Alla presentazione del libro disse: ‘Grazie a Lello Esposito finalmente Pulcinella comincia a morire’. Perché questo è. Muore quell’immagine oleografica di fastidio e immobilismo e comincia a essere un’altra cosa: la città che si mette in movimento».

Il suo progetto artistico è strettamente connesso all’identità.

«Il mio progetto era proprio questo: partire dall’identità, dai simboli, come Pulcinella e San Gennaro. Il simbolo che diventa marchio, marketing. Il simbolo che diventa moderno e rappresenta la voglia di cambiamento. Scompare quella parte oleografica di tradizione che spesso ai benpensanti intellettuali o ai politici incapaci non era gradita. Dicevano: “Ah, tu sei l’artista napoletano? Ma noi dobbiamo essere universali”. Ma che significa? Oppure dicevano: “Basta con ‘sta pizza e col mandolino”. Ma stiamo scherzando? Oggi per fortuna nessuno più si permette di dire una cosa del genere ed è il mondo che ce l’ha insegnato prima che lo capissimo noi. L’ho imparato viaggiando: io andavo nel mondo e portavo la mia storia, la mia esperienza e mi dicevano “Lello, ma tu sei una risorsa! Rimani a Londra, a Madrid, a New York”, mi chiedevano di rimanere nei vari posti in cui andavo. E allora ho capito che forse avevo ragione e ho continuato e ho cercato di contagiare ancora di più tutta la città e il mondo con quello che era Napoli».

Ha sempre resistito ai richiami dell’estero per rimanere a Napoli…

«Assolutamente! O viceversa: più sto a Napoli e più voglio andare nel mondo e più sto nel mondo e più voglio tornare a Napoli. E questo ping pong mi è costato anche grande fatica. Costruire un progetto significa fare una vita di sacrifici. È molto più facile fare bottega, creare un prodotto, venderlo: fai cassa, ti fai le vacanze, ti compri una bella macchina. Impegnarsi in un progetto, invece, significa fare sacrifici. Però bisogna avere delle idee, sapere cosa vuoi fare nella vita».

L’ha mai odiato Pulcinella? La sua idea di ucciderlo per ricrearlo diverso è nata da un grande amore o dall’odio per quello che era diventato?

«Tutte e due le cose. Innanzitutto non ho mai fatto una ricerca storica su Pulcinella. Mi interessava la figura, mi piaceva, mi dava la possibilità di esprimere delle emozioni. I miei Pulcinella sono cresciuti con me. Erano dei contenitori, ci mettevo dentro la mia crescita, la mia esperienza e alla fine non ho cambiato strada: continuo a fare così. Ho investito tutte le mie energie in queste metamorfosi continue, traendo spunto dalle difficoltà: la difficoltà ti aiuta a cercare nuove strade».

In questo progetto di metamorfosi lei si è sempre rivolto alla città, dal basso…

«I napoletani sono il bene più prezioso della città nonostante spesso ne sentiamo dire male. La parte popolare, la più bella e sana di questa città, che spesso purtroppo è costretta a curarsi da sola, ha reagito e sta reagendo attraverso la creatività, attraverso le atmosfere creative di questa città. Io ho sempre parlato alla gente con un linguaggio riconoscibile, alla mia città attraverso una figura riconoscibile. E la città lo ha capito. Ho preso e continuo a prendere l’energia dal mondo, l’esperienza mi ha fatto crescere e stimolato ma non ho mai abbandonato la dimensione di città, di trasformazione. E oggi la vedo, questa trasformazione, Napoli me la restituisce. Oggi Napoli accoglie i turisti di tutto il mondo e i turisti sono anch’essi dei contenitori in cui c’è tutto il mondo, tutte le professioni, tutte le intelligenze. È importantissima la prima accoglienza che facciamo nella città, che fanno i napoletani, con la loro creatività, le botteghe, i giovani».  

Esiste un luogo in cui si avverte più che altrove questo dinamismo, questo cambiamento?

«Il centro storico. Un centro storico accogliente, in cui mi trovo anche io e che è il cuore pulsante di questa crescita straordinaria che porterà allo sviluppo della città anche oltre il centro storico. Pensa: una piazza, un centro con una guglia, poi man mano le arterie che si allungano nei vicoli della città e che portano da un lato verso il mare, dall’altro verso il Museo, Capodimonte, il Vomero. Poi ci sono le tangenziali, i mezzi di trasporto. Questo sviluppo che parte dal centro storico man mano arriverà alle periferie, alla città metropolitana. Non ci sono confini. Pompei, Torre Annunziata, Torre del Greco: è già tutto così. Non dobbiamo pensare Napoli come una città di un milione di abitanti, ma di tre, quattro, cinque milioni. Dobbiamo pensarla in grande: Napoli è una grande città».

Cosa ci manca ancora per compiere completamente il processo?

«Il “mettere a sistema” tutto questo, quindi i trasporti, i collegamenti, la gestione, e tutto quello che è lo sviluppo economico di questa grande creatività che c’è a Napoli. Da un po’ di anni siamo stati tenuti fuori dallo sviluppo nazionale, dai grandi investimenti, i grandi progetti per il Sud non sono stati fatti e ci siamo impoveriti. E poi dobbiamo pensare alla nostra storia, all’identità, che è fondamentale perché ci dà radici e strutture forti. Dobbiamo partire dal basso, come le fondamenta. Quando si costruisce un grattacielo, più vai giù e più il grattacielo è alto. Vogliamo costruire un albero che fa frutti e fiori? Dobbiamo aspettare, mettere un seme».

Quando è iniziata questa trasformazione della città?

«Le trasformazioni sono le stesse avvenute in tutto il mondo: ce ne siamo accorti tutti insieme perché oggi la comunicazione va velocissima grazie ai social, ma è qualcosa di spontaneo ed universale che sta avvenendo allo stesso tempo ovunque. In alcune città le botteghe muoiono e i centri storici sono desertificati, noi, invece stiamo reagendo in maniera differente. Dobbiamo insistere, superare le norme che penalizzano il centro storico, le botteghe. I mestieri sono fondamentali: le tecnologie ci aiutano, ma la parte creativa è indispensabile, dovremmo pensare a insegnare ai ragazzi con le scuole professionali. Lo Stato dovrebbe stare vicino alle botteghe, comprendere che è necessario farle resistere, con agevolazioni, corsi, perché  la memoria di mestiere ha fatto ricca l’Italia in tutti i settori, dalla sartoria alla torrefazione di caffè ai pastori, alla ceramica, ai coralli. Qualsiasi mestiere è una ricchezza straordinaria».

L’impressione è che oggi le esperienze creative siano più spontanee: chi vuole fare qualcosa la fa anche se è un perfetto sconosciuto e non ha le conoscenze giuste. È così?

«Certo. Oggi se vuoi fare qualcosa di creativo puoi farla e basta, è questa la cosa bella che sta avvenendo, il miracolo. Sta tornando la vecchia creatività dei napoletani, quella che era un tempo l’arte di arrangiarsi oggi è cambiata, è diventata l’arte di costruire dei progetti, di dire: “Abbiamo già dato, ora facciamo noi, a modo nostro”. I giovani sono più chiari, hanno mezzi maggiori, hanno studiato, parlano inglese, ecco questa è una cosa su cui dobbiamo lavorare: occorre aumentare le scuole di lingua inglese e anche quelle di italiano per gli stranieri che vengono da noi, bisogna favorire lo scambio».

Prima ha detto che la rinascita sta arrivando alle periferie. Lo crede davvero?   

«Sì, però bisogna avere le idee chiare. I problemi sono tanti, ma io ho vissuto le periferie del mondo, in particolare a New York e ho imparato che tutelare il centro di una città è fondamentale perché le città come dicevo prima si allargano e man mano che si allargano vuol dire che abbiamo risanato la parte su cui ci si allarga, abbiamo costruito un progetto. Dobbiamo fare delle scelte: chi vuole abitare al centro storico deve stare a piedi, via le macchine. Chi vuole usare le macchine ha la periferia, dove c’è spazio per parcheggiare, ci sono grandi centri commerciali… E poi le periferie sono luoghi straordinari. Prendi Secondigliano: è bellissima. Ha una storia, il mercato, la cultura del cibo, grandi strade, belle palestre di nuova costruzione. Parliamo sempre della parte brutta, delle case dormitorio. Certo, abbiamo da lavorare, ma questo è un problema di tutto il mondo non solo delle nostre periferie».

E la politica? 

«Mi auguro che la politica sia più unita in città, che pensi al bene comune della collettività. Che le opposizioni, a qualsiasi sindaco, siano costruttive e non distruttive. La politica è necessaria, Napoli è una  città che può dialogare col mondo, con l’Europa, ma deve dialogare innanzitutto con l’Italia. È una città unica, nel bene e nel male, i contenitori da riempire sono tantissimi e le potenzialità enormi, è una città dove c’è tanto da fare e questa è una ricchezza, significa che abbiamo tanto da sviluppare e costruire. Dobbiamo augurarci che anche i politici siano più attenti e prestino attenzione alle esigenze della città e dei napoletani. I napoletani devono essere visti come risorsa, non come negatività».

Per lei la città è in continuo divenire. È una visione che offre mille possibilità ancora di crescita…

«Questa è una città purgatorio, cosa vogliamo vedere: il Paradiso o l’Inferno? Io guardo sempre il Paradiso».

Nel suo atelier vengono turisti da tutto il mondo. Sono spaesati o hanno le idee chiare?

«I turisti vengono con un’idea precisa, scelgono Napoli, ne sono stimolati, trovano una città straordinaria. Vanno via contenti e sperano di ritornarci perché Napoli dà delle emozioni. Anche disservizi, come accade dappertutto, ma qui ci sono anche un’umanità e un’accoglienza straordinarie. Oggi i turisti sono coccolati, non c’è più la mentalità di una volta, che viene il turista e lo dobbiamo imbrogliare. Purtroppo abbiamo anche la criminalità, come in tutte le grandi città, ma è fisiologico e dobbiamo lavorarci: dobbiamo aumentare il lavoro, dare delle possibilità, sono risposte che si possono avere solo con un intervento nazionale che voglia davvero sostenere questa città e il suo sviluppo economico. Abbiamo cultura e arte nel centro storico, ma abbiamo anche settori economici strategici, come l’aerospazio e dobbiamo tutelarli. Se Apple viene a Napoli a me sembra una cosa buona, un’occasione, auguriamoci che tanti altri possano venire. Abbiamo un patrimonio immenso, ottimo cibo, accoglienza, un clima buono. Abbiamo Pompei, Ercolano, Capodimonte, luoghi che sono conosciuti in tutto il mondo».

A proposito di Capodimonte: qualche giorno fa il direttore del Museo, in un’intervista, ha detto che il problema di Napoli è sempre stato il marketing. Lo pensa anche lei?

«Fino a vent’anni fa non avevamo la cultura del turismo perché i turisti si fermavano a Sorrento, Ischia, Capri, Positano e Amalfi. A Napoli no, eravamo tagliati fuori. Oggi si può dire che Napoli ha acquisito esperienza e cultura sul turismo. Dobbiamo sempre fare conti con la burocrazia, con i soldi, ma qualcosa sta cambiando. Sicuramente il problema è il marketing, ma fare troppo marketing fa male se non abbiamo infrastrutture e strutture. È meglio mantenere la situazione in stand by e crescere in maniera naturale e nel frattempo aggiustare il tiro. Tutti questi B&B che stanno nascendo in maniera spontanea, per esempio, sono straordinari. Più posti di accoglienza abbiamo e più possiamo aumentare la ricettività e costruire un sistema economico. Le potenzialità sono enormi ma dove li mettiamo tutti questi turisti? Dobbiamo pensare man mano di costruire infrastrutture, alberghi. Aggiusteremo anche questo».

Cosa vuol dire per lei identità?

«La tua storia, le tue radici, i tuoi profumi, il tuo cibo, la memoria, la tua famiglia, i luoghi dove sei cresciuto. Tutto questo ci dà un’esperienza, una conoscenza. Quanto più l’identità è forte e viscerale, quanto più siamo autentici, tanto più siamo universali, perché abbiamo una storia da raccontare quando andiamo nel mondo. Si diventa universali attraverso la conoscenza, lo scambio, il rispetto delle diversità. Le diversità sono una cosa straordinaria: Napoli è sempre stata una città tollerante a tutto».

Segue il calcio?

«Ne capisco poco ma vado qualche volta allo stadio. L’identità è importante anche nel calcio. Non conoscevo Sarri: quando ho saputo che sarebbe arrivato lui mi è sembrato interessante per le sue origini napoletane. L’ho preso come buon auspicio, un uomo di origini napoletane avrebbe saputo comprendere e dialogare con i giocatori e la città. Vorrei dire ai giocatori che è importante che capiscano di stare in una grandissima città. Credo che i risultati che si sono visti in queste prime partite dipendano dal fatto che c’è una maggiore identità, sia grazie al Presidente, con cui mi sono visto spesso qui in pazza San Domenico Maggiore e ne abbiamo parlato, sia grazie a questo allenatore».

Nelle Scuderie Sansevero è venuto anche Benitez…

«Ecco, con Benitez abbiamo parlato di identità. Ha percepito la voglia di trasformazione. Disse che gli sarebbe piaciuto venire qui con tutta la squadra e fare una chiacchierata con me su cosa significhi identità, pensava che la coscienza dell’appartenenza fosse importante. Mi disse che era il messaggio che stava cercando di lanciare alla città ma che non tutti lo capivano. L’ho trovato una persona di grande intelligenza, umanità, curiosità, molto interessante».

Lei ha dato tutto a Napoli, ha parlato con la città spingendola a trasformarsi. Napoli la ha ripagata?

«Tantissimo. Napoli è stato il mio nutrimento ma ho restituito sempre tutto quello che ho preso. Magari a volte ho preso con un po’ interesse ma l’ho restituito. Massimo Troisi, tanti anni fa, mi diceva: “Tu sei bravo, sei un grande artista, devi venire via, vieni a Roma, non puoi stare a Napoli, Napoli ti mangia”. Ma io gli rispondevo che il mio progetto era la città, gli dicevo che ci andavo lo stesso a Roma, e a New York, ma che poi restavo qua. Devi comprendere che ci sono delle cose su cui lavorare, progetti da consolidare. Nessuno più deve permettersi di puntare il dito sul napoletano. Vorrà dire che sarò il nutrimento della mia città».

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